Fossero solo le twin transition, cioè quella ecologica e quella digitale a sconvolgere le aziende, sarebbe già un bell’impegno. Ma a queste cosiddette «transizioni gemelle» se ne unisce una terza altrettanto sconvolgente, quella del lavoro nelle nuove generazioni, ulteriormente amplificata dal calo demografico. Non c’è tanto da girarci attorno: è una trasformazione radicale, spinta da profondi cambiamenti demografici e dalle nuove esigenze della Generazione Z. Per decenni, la principale priorità delle politiche del lavoro è stata sostenere la domanda e creare occupazione. Oggi, invece, il vero problema risiede nell’offerta di lavoro, la palla è passata alle aziende ed è una palla che scotta: la diminuzione della popolazione in età lavorativa e l’invecchiamento della forza lavoro rappresentano un problema gigantesco. Negli ultimi dieci anni, la popolazione attiva tra i 15 e i 64 anni è calata di 1,6 milioni di persone, con una perdita significativa di lavoratori nella fascia d’età 35-49 anni e una crescita degli over 50. Se la tendenza dovesse proseguire, l’Italia rischia di vedere la propria forza lavoro ridotta del 3% entro il 2030, con una previsione ancora più preoccupante di un calo del 15,6% entro il 2050. In questo contesto, i giovani diventano una risorsa rara e preziosa. Anche se il tasso di occupazione giovanile è in crescita (+5% negli ultimi dieci anni), resta molto al di sotto della media europea. La diminuzione dei Neet, che sono passati da tre a due milioni, è un dato incoraggiante, ma ancora insufficiente per compensare il declino generale della popolazione attiva. Il problema, ovviamente, non può essere lasciato solo nelle mani delle aziende, c’è anche tutto un tema di responsabilità istituzionale nelle politiche demografiche. Leggendo i recenti dati Eurostat, quest’ultima sottolineatura balza in evidenza mettendo a confronto i dati dei lavoratori per fasce d’età di Italia e Francia.
La fecondità francese, più vicina ai due figli per donna, ha consentito di mantenere solido il potenziale di «forza lavoro». Viceversa la denatalità italiana è andata progressivamente a ridurre le fasce più giovani entranti nella «forza lavoro», con le dinamiche e le conseguenze che affrontiamo in questa intervista con il professor Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, consigliere esperto del Cnel, direttore del «Center for Applied Statistics in Business and Economics», coordinatore scientifico dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo e dell’«Osservatorio sulla Condizione giovanile» istituito dalla Regione Lombardia.
Professor Rosina, il calo demografico in Italia è un tema cruciale. Quali effetti ha sul mercato del lavoro?
«Stiamo entrando in una fase nuova e complessa. Fino a poco tempo fa, l’economia si basava su un’ampia presenza di giovani. Questi ultimi non solo costituivano una risorsa abbondante per il mercato del lavoro, ma alimentavano anche la crescita economica. Oggi, invece, assistiamo a un ribaltamento: i giovani sono pochi e la popolazione anziana aumenta. È una condizione inedita nella storia, e l’economia del futuro dovrà essere ridefinita tenendo conto di questa nuova realtà».
Come reagiscono le aziende a questo cambiamento?
«Il punto critico è che molte aziende faticano ad adattarsi. Spesso si confrontano con i giovani solo al momento del colloquio di lavoro, quando ormai è troppo tardi per stabilire un vero dialogo. Questo crea un cortocircuito, perché i giovani si presentano con aspettative diverse rispetto a quelle che le imprese erano abituate a gestire nel Novecento. Se si insiste nel proporre un’idea di lavoro ormai superata, il rischio è di non riuscire ad attrarre o trattenere i giovani talenti».
Qual è allora l’approccio giusto per le aziende che vogliono essere competitive oggi ma soprattutto in prospettiva futura?
«Il cambiamento deve partire dal modo in cui il lavoro viene concepito. Le nuove generazioni non si riconoscono più in un modello basato su orari rigidi e compiti predefiniti. Il lavoro, per loro, non è solo un mezzo per guadagnarsi da vivere, ma un’opportunità per esprimere se stessi e fare la differenza. Dobbiamo smettere di pensare al lavoro come a una semplice transazione tra ore lavorate e salario. Ciò che serve è un dialogo aperto con i giovani, che permetta loro di essere protagonisti attivi nei progetti e nei processi aziendali».
In che modo la scarsità di giovani può diventare un’opportunità per il nostro sistema economico?
«La riduzione quantitativa della popolazione giovanile impone una rivalutazione qualitativa. Non possiamo più permetterci di avere un’alta percentuale di giovani senza formazione adeguata o con poche prospettive. Investire nella loro formazione e valorizzare le loro competenze deve essere una priorità, se vogliamo evitare il declino economico e sociale. Le aziende italiane devono smettere di considerare i giovani come risorse sacrificabili e iniziare a vederli come il motore dell’innovazione e della crescita».
Ma cosa manca ai giovani di oggi per essere pronti a entrare nel mondo del lavoro?
«Una parte del problema è che i giovani italiani, a differenza dei loro coetanei europei, non fanno abbastanza esperienza durante l’adolescenza. Nei paesi nordici, i ragazzi a 16-17 anni iniziano già a lavorare, a fare volontariato o a partecipare a progetti civici, acquisendo così competenze fondamentali per la loro futura vita professionale. In Italia, invece, i giovani restano a casa fino ai trent’anni, senza l’urgenza di diventare indipendenti. Questo ritarda la loro maturazione lavorativa e personale».
La spina dorsale del nostro Paese è costituita dalle Pmi. Qual è il ruolo delle piccole e medie imprese in questo cambiamento?
«Le piccole e medie imprese, il cuore dell’economia italiana, hanno un vantaggio: possono essere più flessibili e instaurare un rapporto diretto con i giovani lavoratori. Tuttavia, devono anche rendersi conto che il vecchio approccio – basato su orari fissi e rigidità organizzativa – non funziona più. Bisogna creare condizioni che permettano ai giovani di esprimere il meglio di sé, inserendoli in un contesto dinamico e valorizzandoli come individui, non solo come risorse lavorative».
In che misura la tecnologia e la pandemia hanno accelerato questi cambiamenti?
«Sono tutti fattori che si intrecciano. La pandemia ha scardinato molte delle vecchie certezze sul lavoro, con l’introduzione massiccia del lavoro a distanza e una maggiore attenzione alla salute e al benessere dei lavoratori. Le nuove tecnologie, a loro volta, stanno rivoluzionando i processi aziendali. Ma la vera sfida è di tipo qualitativo: come possiamo ripensare il lavoro in un’epoca in cui la qualità della vita, delle relazioni e dell’ambiente sono più importanti della semplice quantità di produzione?».
I giovani sembrano essere particolarmente attenti ai valori come la sostenibilità e l’inclusività. Come influisce questo sulle aziende?
«Le nuove generazioni vogliono lavorare per aziende che rispecchiano i loro valori. Non sono disposti a scendere a compromessi quando si tratta di sostenibilità ambientale o inclusività sociale. È un cambiamento radicale rispetto al passato, quando la quantità – di ore lavorate, di beni prodotti – era il parametro centrale. Oggi ciò che conta è la qualità della vita, del lavoro, delle relazioni. Le aziende che non sapranno adattarsi a questo cambiamento rischiano di rimanere indietro».
Insomma, il messaggio chiave per le imprese mi sembra molto chiaro: devono cambiare…
«Certo che devono cambiare. Il futuro delle aziende italiane dipende dalla loro capacità di valorizzare le nuove generazioni. Devono smettere di trattare i giovani come risorse da sfruttare e iniziare a considerarli come partner strategici, capaci di portare innovazione e qualità. Solo così potranno affrontare con successo le sfide di questo secolo, dalla crisi demografica alla rivoluzione tecnologica»
(Eco di Bergamo)