08/01/2020 | |
IL QUOTIDIANO DEL SUD |
Intervista a Alessandro Rosina.
Come si riparte da una decrescita demografica?
Avere figli è sempre più una scelta e tale scelta è sempre meno scontata. Viene realizzata quando le si attribuisce valore e quando si integra positivamente con il proprio percorso di autonomia e con le prospettive di lavoro. I nodi che frenano la possibilità dei giovani di stabilizzare il proprio percorso occupazionale e alle donne di conciliare lavoro e famiglia portano non solo a impoverire l’economia del territorio ma anche ad accentuare gli squilibri demografici. E’ quindi importante che a livello non solo nazionale ma anche locale, le politiche familiari siano considerate come parte integrante delle politiche di sviluppo del territorio. Questo significa che al centro dei piani di sviluppo deve esserci l’impegno a favorire al rialzo le scelte professionali e familiari delle nuove generazioni. Solo così il territorio può tornare vitale dal punto di vista economico e demografico.
Durante gli anni del boom economico il Sud è stato per il Nord un serbatoio di manodopera a basso costo. Con gli anni e con le crisi cicliche e strutturali il Mezzogiorno si è trasformato in una zavorra. O almeno questa è la narrazione, corrente. Il modo in cui il Sud viene percepito al di là della liena gotica. Non ritiene che senza un rilancio del Sud, le regioni più sviluppate del Nord saranno sempre penalizzate?
Ne sono assolutamente convinto. Il rilancio dell’Italia passa prima di tutto per il rilancio delle opportunità delle donne del Sud, in particolare quelle che partono da uno status sociale medio-basso. Qui sta sia il nodo principale di ciò che non funziona nel nostro paese, sia il bacino più ampio per dare una iniezione di energia, intelligenza e sensibilità nuove alla crescita del paese. Se si scioglie quel nodo si ottiene non solo la maggior spinta per lo sviluppo economico ma anche alla mobilità sociale. Se dovessi individuare la risorsa principale su cui investire per ripartire, punterei soprattutto su questa. Sbloccandolo da qui, il paese può ritrovare nel complesso una via di sviluppo più solida ed equilibrata.
Aziende che chiudono, giovani in fuga. inchieste giudiziario. Sei fosse un giovane, mediamente scolarizzato, nato al Sud, a Taranto oppure a Reggio Calabria, lei cosa farebbe- Resterebbe o se ne andrebbe?
Come le nostre ricerche evidenziano, quello che spinge un giovane ad andar via non è tanto il fatto di vivere in una realtà che offre meno opportunità di altre, ma non intravedere la prospettiva di potersi sentire parte attiva di un suo miglioramento. Se le nuove generazioni, soprattutto con scolarizzazione medio-alta a partire da status medio-basso, non si sentono riconosciute come nuovo di valore che può generare nuovo valore. Se manca tale riconoscimento e l’interesse della classe politica e della classe dirigente è solo consolidare il proprio consenso e favorire gli interessi di parte e non il bene comune, allora andarsene diventa una scelta naturale, come scappare da una stanza piena di fumo in cui ci si sente soffocare.
Come si può migliorare la realtà in cui si vive senza essere arruolati dalla camorra o dalla ‘ndrangheta o aspettare un intervento dall’alto?
Esistono tre elementi a cui fare affidamento, ma devono funzionare tutti e tre in sinergia. Il primo è credere nelle proprie possibilità e in un destino diverso per il proprio territorio. Il secondo è poter condividere con altri coetanei esperienze positive e di valore come iniziativa, imprenditoriale e culturale, collettiva dal basso. Il terzo è trovare qualche riferimento credibile in qualche imprenditore affermato o nella parte sana delle istituzioni che consenta alle idee e all’intraprendenza dal basso di trovare adeguati canali di espressione e qualche finanziamento iniziale. Se nessuno investe dall’alto, quantomeno in fiducia, difficile che dal basso germogli qualcosa che abbia la possibilità di crescere.
Che ne sarà dei piccoli borghi, le aree interne sono condannate all’abbandono?
Va detto in modo chiaro e inequivocabile che se non si produce subito, o quantomeno nella prima parte di questo nuovo decennio, una discontinuità positiva rispetto ai decenni precedenti, diventa irreversibile il destino di un Sud Italia condannato ad essere una delle aree con peggior combinazione di bassa crescita, diseguaglianze sociali e squilibri demografici. Solo alcuni grandi centri potrebbero resistere, ma con periferie in tensione sociale e il resto del territorio in forte invecchiamento e desertificazione.
Demografia e disuguaglianze. C’è un rapporto diretto?
La diminuzione delle nascite dagli elevati livelli del passato è iniziata a partire dalle donne con titolo di studio più elevato. Ora che la fecondità è molto bassa, scesa sotto il numero medio desiderato, la scelta di avere figli è esercitata con più successo per chi ha maggiori risorse socio-culturali e in contesti con welfare più efficiente. Nelle realtà, quindi, che faticano a crescere anche la fecondità tende a diminuire, di conseguenza aumentano squilibri demografici che riducono ulteriormente le possibilità di crescita a svantaggio soprattutto delle categorie sociali più vulnerabili.
L’immigrazione può essere per l’Italia e per il Sud una opportunità. Oppure ha ragione Salvini,lasciamo fuori, i flussi dall’Africa sono incontrollabili.
L’Italia, con una fecondità molto sotto il livello di rimpiazzo generazionale, ha perso da tempo la propria capacità di crescita endogena. Il paese invecchia e si restringe progressivamente la popolazione in età lavorativa. Questo vale ancor più per il Sud. In alcuni settori la forza lavoro straniera è diventata già imprescindibile. Nelle aree in declino ci sarà sempre meno occupazione di qualità per i giovani ben preparati e rimarrà solo domanda di lavoro ai margini, meno remunerato e meno appetibile. Le aree che vorranno invece sostenere un solido processo di crescita devono unire ad un miglior impiego dei giovani autoctoni (che diventerà sempre più debole come conseguenza della denatalità) anche flussi in entrata ben governati e adeguatamente inseriti nel modello sociale e di sviluppo del territorio.
La Germania, abbattuto il Muro nell’89 è ripartita includendo l’Est che aveva un Pil dieci volte inferiore al nostro. Perché in Italia, che pure non ha fili spinati e muri, questo non è successo?
Elenco due motivi. Il primo è che a differenza dell’Italia, la Germania quando si pone un obiettivo di interesse comune investe tutto quello che serve in modo efficiente per ottenerlo. Il secondo è con la caduta del muro di Berlino si è prodotta una netta discontinuità tra il prima e il dopo, con la possibilità quindi di chiudere un capitolo e di aprirne un altro di fatto nuovo. Non solo impostando un modello economico e sociale nuovo ma anche sancendo il fallimento della classe politica dell’Est che aveva fino ad allora governato. Per fare la stessa cosa dovremmo riconoscere che esiste da troppo tempo, tra Nord e Sud Italia, un muro non fisico ma non per questo meno solido nei suoi effetti economici e sociali, che impedisce non tanto e persone di andarsene ma di rimanere. Da questo riconoscimento deve derivare la scelta di abbatterlo e creare una discontinuità con il passato, che deve però comprendere anche una forte rimessa in discussione della classe politica locale.