02/02/2016 | |
NOTE MODENESI |
L’acronimo NEET – “not in education, employment or training” – viene utilizzato per la prima volta nel 1999 all’interno di un documento della “Social exclusion unit” del governo britannico. Si trattava allora di un fenomeno relativamente modesto, per lo più legato a particolari situazioni di marginalità sociale. A distanza di tre lustri, questi ragazzi che ormai hanno perso ogni speranza rinunciando sia a studiare che a cercare lavoro, sono un esercito. In Europa, il loro numero è stimato intorno ai 14 milioni, l’Italia da sola ne vanta – si per dire – quasi 2 milioni e mezzo, il 26 per cento dei nostri giovani fra i quindici e i trent’anni. La media europea è del 17 per cento: di nove punti più bassa. Erano già tantissimi – 1 milione e ottocentomila – nel 2008, dunque prima che scoppiasse la lunga crisi economica di cui ancora patiamo le conseguenze. Oltre la metà di questi rimangono inoccupati per più di due anni e per la maggioranza dei casi provengono da classi sociali medio-basse: questo a conferma che gli squilibri generazionali sono strettamente connessi con quelli sociali. Nella nostra Regione, secondo quanto riporta il Rapporto annuale 2015 sul mercato del lavoro in Emilia-Romagna, “tra 2007 e 2014 i giovani NEET compresi tra i 15 e 29 anni sono raddoppiati (+103,4%%), superando la soglia delle 120 mila unità. Nel 2007 rappresentavano il 9,6% della corrispondente popolazione residente compresa tra i 15 e i 29 anni; nel 2014 sono diventati il 20,6% della medesima. L’incremento risulta particolarmente concentrato nella fascia d’età 18-24 anni, la più problematica (+184,5% tra 2007 e 2014)”.
Alessandro Rosina, demografo e sociologo della Cattolica di Milano, è autore di diverse pubblicazioni scientifiche e divulgative. L’ultimo suo saggio, edito da Vita e Pensiero, è dedicato proprio ai NEET, è stato presentato ieri nell’ambito degli incontri organizzati dalla Fondazione Gorrieri ‘Per non per perdere la bussola…nell’attualità’. “L’Italia – ha commentato Rosina – è un paese in affanno, prostrato dalla crisi, con troppi freni che ne imbrigliano le energie e ne comprimono la vitalità”. Da demografo, il professore segnala che uno dei riscontri più evidenti di questa depressione economica e sociale è offerto dall’andamento delle nascite. Nel Belpaese, titolava Repubblica appena qualche giorno fa riportando i dati del 2015, le “culle sono sempre più vuote“. Siamo sotto i 500mila nati. Un disastro anche per l’economia, presente e futura, perché un paese di vecchi nel quale milioni di giovani hanno smesso di studiare e non lavorano, centinaia di migliaia se ne vanno all’estero (tra il 2008 e il 2013 sono emigrati più di mezzo milione di connazionali) non è propriamente il naviglio migliore per affrontare il grande mare delle sfide che la globalizzazione impone.