15/05/2017 | |
JOB Il Magazine |
Intervista a Alessandro Rosina nello speciale Lavoro di Job Il Magazine
La disoccupazione giovanile in Italia è altissima: come mai?
La disoccupazione è riconducibile a vari fattori. E’ alta quando è scarsa la domanda di lavoro, soprattutto nei periodi di crisi e nei Paesi che non hanno solide politiche industriali. La domanda di lavoro di qualità difficilmente può crescere, se si investe poco in ricerca, sviluppo e innovazione. La disoccupazione giovanile risulta, inoltre, alta dove mancano strumenti efficaci in grado di mettere in relazione domanda e offerta di lavoro. E viene anche favorita da carenze sul lato dell’offerta, ovvero da un inadeguato processo di formazione e aggiornamento continuo di competenze utili per il sistema produttivo.
Non è un problema solo italiano.
No, ma da noi tocca valori particolarmente elevati. Per altre due ragioni. La prima è un’alta presenza di lavoro sommerso che lascia fuori dalle statistiche ufficiali molti giovani che cercano di arrangiarsi in qualche modo. La seconda è la presenza di un modello culturale che rende accettabile una prolungata dipendenza dei figli dai genitori e il ruolo della famiglia di origine come ammortizzatore sociale.
I giovani sono sfiduciati? E’ vero che disdegnano i lavori “umili”?
Ci sono anche i giovani bamboccioni e schizzinosi, ma non rappresentano la maggioranza e sono in riduzione. Di fronte alle difficoltà di trovare un adeguato lavoro e realizzare i propri progetti di vita, i giovani italiani sono diventati consapevoli dell’importanza di tre aspetti: è aumentata la disponibilità ad adattarsi e a farsi più intraprendenti; nei riguardi della scuola è cresciuto il riconoscimento dell’utilità di acquisire solide competenze, tecniche e trasversali, al di là del titolo di studio in sé; è aumentata l’attenzione al reddito (e alla sua continuità), perché la sua carenza blocca l’autonomia e le scelte di vita successive. La realizzazione personale è rinviata più avanti. Ciò che, però, temono è che l’eccessivo adattamento al ribasso possa diventare una condizione permanente.
Abbiamo anche un problema di ricollocazione dei senior.
L’Italia è uno dei Paesi che nei prossimi anni vedrà crescere maggiormente la partecipazione dei senior al mercato. Passeremo da un lavoratore over 55 su sette a oltre uno su quattro entro il 2030. Un cambiamento enorme. Le aziende che prima inizieranno ad agire in questa direzione si troveranno con un vantaggio competitivo. Più che spostare in avanti l’età pensionabile servono politiche pubbliche e pratiche aziendali in grado di favorire le condizioni di una lunga, produttiva e soddisfacente vita lavorativa. Questo significa anche potenziare gli strumenti – come l’age management – che consentono di gestire meglio carriere e fasi di passaggio.
Le donne guadagnano e fanno meno carriera degli uomini.
L’Italia ha due nodi che frenano i progetti di vita e professionali delle persone e il loro contributo alla crescita sociale ed economica: la valorizzazione del capitale umano delle nuove generazioni e la conciliazione tra lavoro e famiglia. Entrambi si fanno sentire soprattutto sui percorsi femminili. Poi pesano i freni culturali, che hanno ricadute sulle carenze di policy e sulle inefficienze organizzative. Il minor rendimento femminile della laurea è in parte dovuto anche al fatto che negli studi le ragazze scelgono di meno le discipline scientifiche e tecniche, che tendono ad offrire più opportunità di impiego e carriera. (di Mauro Cereda)