18/02/2016 | |
Radio Città Fujiko |
Dalla ricercatrice che risponde alla ministra Giannini alla morte di Giulio Regeni. In Italia si torna a discutere dei “cervelli in fuga”, ma la struttura demografica delle Università italiane rimane gerontocratica e la riforma Gelmini ha peggiorato le cose. A Bologna in scadenza 100 ricercatori. Una fotografia su come il Paese tratta le sue menti.
I riflettori dei media, in questi giorni, sono tornati ad accendersi sulla condizione dei giovani ricercatori italiani. Da un lato l’uccisione di Giulio Regeni, giovane ricercatore italiano per l’Università di Cambridge, dall’altro la risposta di una ricercatrice italiana ai meriti che la ministra Giannini cercava di prendersi a proposito della scoperta sulle onde gravitazionali, hanno riaperto lo storico dibattito sulla cosiddetta “fuga dei cervelli” e su ciò che spinge le giovani menti italiane ad andare all’estero.
A certificare le difficoltà dei giovani ricercatori italiani in patria, ormai, c’è una cospicua letteratura, fatta di dati ed analisi. Una di queste ultime è quella di Alessandro Rosina, docente di Statistica all’Università Cattolica di Milano e autore del libro “Non è un Paese per giovani“.
“L’Italia sconta una struttura demografica gerontocratica all’interno delle Università – spiega il docente – con molti professori over 65, che oltretutto costano molto a causa degli scatti di anzianità”. Se si unisce questo aspetto alla cronica scarsità di finanziamenti alla ricerca e per l’innovazione, ecco che i giovani studiosi italiani sono sempre più spinti ad andare all’estero, dove trovano maggiori riconoscimenti per il proprio lavoro e strutture più avanzate dove svolgere le proprie ricerche.
“Servirebbero scelte drastiche – osserva Rosina – sia sul versante degli investimenti, sia per ringiovanire la popolazione accademica”.
Gli ultimi dati Istat sugli espatri parlano chiaro. Se a inizio secolo i laureati che lasciavano l’Italia erano circa il 12%, negli ultimi anni sono ormai il 30%. Ancor più significativo l’esodo dei dottori di ricerca, raddoppiato nei soli ultimi 3 anni.
All’estero, solitamente, il trattamento che ricevono è migliore, dal momento che i talenti italiani sono piuttosto apprezzati.
“Anche la produttività scientifica dei ricercatori italiani, soprattutto giovani – osserva il docente – è piuttosto rilevante. I giovani ricercatori italiani sono competetivi, anche grazie ad una crescente presisposizione al cosmopolitismo, che li agevola anche nella stesura di paper in inglese”.
Il trattamento che l’Italia riserva ai propri giovani, però, ha un costo sociale per l’intero Paese. Spesso, infatti, si spendono soldi per la formazione e la preparazione dei professionisti, di cui però beneficieranno Stati esteri. Aggiunto al problema dei “neet“, ciò rende evidente la poca lungimiranza del sistema italiano.
“È come se investissimo in un vivaio di giocatori – osserva Rosina – ma, al momento di farli giocare, li tenessimo in panchina o li regalassimo alle altre squadre”.