“Bisogna mettere i giovani che non hanno figli in condizione di farli, è questa la priorità”.
Per Alessandro Rosina, ordinario di Demografia alla Cattolica di Milano, il calo demografico non si combatte solo detassando le famiglie numerose, anche se «è un buon punto di partenza». Insiste il demografo: «Una coppia di under 30 che non ha un lavoro sicuro e che fatica a ottenere il mutuo per l’acquisto della casa rinuncia a mettere al mondo un bambino perché teme di impoverirsi. Ecco perché servono interventi strutturati e integrati, prendendo esempio da quanto è stato fatto in Paesi come Francia e Germania per rafforzare le politiche familiari».
Cosa ne pensa della proposta di abbassare le tasse alle famiglie numerose avanzata dal ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti?
«Ben vengano tutte le misure che vanno nella direzione di aiutare le famiglie con figli. Ma bisogna vedere cosa prevede più nel dettaglio il progetto al quale sta lavorando il governo. A ogni modo i sostegni economici da soli non bastano a riportare in alto il tasso di fecondità, che in Italia è scivolato a 1,2 figli per donna, ben al di sotto quindi del tasso (pari a due figli per donna) che assicura a una popolazione la possibilità di riprodursi e di mantenere un equilibrio generazionale».
Quali altre misure vanno messe in campo per contrastare l’inverno demografico?
«Quello al vaglio del governo è un intervento di cui beneficerebbero le coppie che hanno già figli. Ma vanno messi in condizione di progettare una famiglia anche i giovani che non hanno figli e che desiderano farne. Oggi in molti rinunciano perché non hanno un’occupazione sicura o perché faticano a ottenere un mutuo per l’acquisto della casa o semplicemente perché temono che una volta arrivato il primo figlio uno dei due genitori, quasi sempre la madre, dovrà rinunciare a lavorare. Risultato? L’età media al parto è salita da noi a quasi 32 anni».
Il calo demografico però non è un problema solo italiano.
«E un problema che riguarda tutte le economie mature, ma che da noi è più accentuato rispetto ad altrove per diverse ragioni. L’Italia sconta da 40 anni un tasso di fecondità sotto 11,5. La Francia, che più di tutti in Europa ha investito sulle politiche familiari, ha visto il tasso di fecondità scivolare sotto 1,8. Lì però l’immigrazione garantisce comunque l’equilibrio generazionale. Bisogna invertire questa tendenza o il nostro Paese risulterà sempre meno competitivo. Per farlo è necessario allineare le politiche italiane alle migliori esperienze europee».
Ovvero?
«Servono interventi strutturati e integrati. Tutti gli studi che abbiamo a disposizione evidenziano che il numero medio di figli desiderato in Italia non è più basso rispetto a quello della Svezia o di altri Paesi che hanno un tasso di fecondità superiore al nostro. Per assottigliare il gap tra figli desiderati e figli realizzati bisogna potenziare per esempio gli asili nido, che in Italia hanno una copertura che a fatica arriva al 30, con forti differenze sul territorio, mentre in Francia e in Svezia l’asticella si posiziona al 50 per cento. Gli asili nido poi devono essere di qualità, perché non sono dei parcheggi, e accessibili. Anche le rette vanno rimodulate».
In Germania l’assegno universale garantisce a tutti i bambini 250 euro al mese.
«Come ho detto i sostegni economici non bastano da soli a fare la differenza. Per fare in modo che la scelta di fare un figlio diventi una scelta di successo è indispensabile che questa non ostacoli la possibilità di avere un secondo reddito da lavoro all’interno della famiglia».
Come?
«È necessario intervenire sui congedi di paternità. In Spagna per esempio quelli pagati al 100 per cento sono stati portati a 16 settimane, come quelli di maternità. Da noi invece durano appena dieci giorni, mentre quelli per le madri arrivano a 5 mesi. È un divario che va ridotto».