Rafforzare attrattività e capitale umano per vincere le sfide demografiche

Tre dati in combinazione tra loro rischiano di inchiodarci ad un futuro di basso sviluppo e di impoverimento del sistema sociale.

Tre dati in combinazione tra loro rischiano di inchiodarci ad un futuro di basso sviluppo e di impoverimento del sistema sociale. Il primo è la continua crescita della popolazione over 75, alla quale corrisponde, come ben noto, un aumento della spesa pubblica per pensioni, per cura e assistenza. Si tratta però di un dato in linea con la tendenza comune delle economie mature avanzate.

Il secondo è la riduzione demografica delle generazioni che entrano nella fase centrale lavorativa. La fascia 25-34 è passata da circa 8,5 milioni di persone nel 2004 ai 6,2 milioni attuali. Si tratta di un crollo inedito rispetto al passato e tra i più accentuati in Europa. La forte riduzione del rinnovo della popolazione attiva va a trascinare via via verso il basso la forza lavoro potenziale. In particolare, la fascia 35-49 è passata da oltre 14 milioni di residenti nel 2014 a meno di 11,5 milioni nel 2024, con la previsione di scendere a meno di 10 milioni entro il 2040.

Il terzo dato è il fatto che l’Italia non solo ha nuove generazioni entranti nella vita attiva demograficamente più deboli rispetto alle altre economie mature avanzate, ma si è rivelata finora anche meno in grado di coinvolgerle in modo pieno e qualificato nel mercato del lavoro. Il tasso di occupazione nella fascia 15-24 anni è quasi 15 punti percentuali sotto la media Ue-27 e la fascia 25-34 è sotto di circa 10 punti percentuali.

Questi dati sono messi in evidenza nel Rapporto appena pubblicato dal CNEL “Demografia e Forza Lavoro”, nel quale si mostra anche come l’incidenza degli under 35 sul totale degli occupati sia scesa negli ultimi vent’anni da valori superiori al 33% (quindi oltre 1 su 3) al 23% (meno di 1 su 4). Al contrario la percentuale degli occupati over 50 è aumentata nello stesso periodo da poco più del 20% a oltre il 40%. La fascia centrale tra i 35 e i 49 anni è entrata in fase di diminuzione più recentemente, scendendo negli ultimi dieci anni dal 47% al 37%.

La combinazione delle tre categorie di dati sopra elencate ha in sé la forza di decretare la condanna dell’Italia al declino economico e all’insostenibilità del sistema sociale. Ciò che rende debole il nostro paese, mettendolo in condizione di svantaggio competitivo rispetto agli altri, non è il primo punto, ma il secondo e il terzo. Su questi ultimi due punti abbiamo però ancora margini per intervenire prima che lo sbilanciamento demografico diventi tale da relegarci nel ruolo di spettatori impotenti del nostro destino.

Sul secondo i margini sono quelli forniti dalle previsioni Istat. Se nello scenario mediano (quello considerato più verosimile) gli squilibri continuerebbero comunque a peggiorare, nello scenario “alto” (il più favorevole tra quelli contemplati) la base demografica andrebbe, invece, a stabilizzarsi e la popolazione in età lavorativa verrebbe rimpinguata da flussi migratori annui netti sull’ordine dei 250 mila. I margini quindi su cui agire su questo punto stanno nell’impegno a spostarci dallo scenario mediano a quello “alto”.

Sul terzo dato i margini sono quelli del gap dell’occupazione giovanile e femminile italiana rispetto alla media europea. Se nei prossimi dieci anni fossimo in grado di annullare tale divario – in coerenza con il percorso dello scenario demografico “alto” – il Rapporto CNEL stima che si potrebbe ottenere un aumento di circa 1,3 milione di occupati under 35 rispetto ai livelli attuali, oltre che una stabilizzazione delle occupate in età 35-54. Per quest’ultima fascia la convergenza all’occupazione femminile europea sarebbe di fatto quasi esattamente compensativa rispetto alla riduzione prodotta dalle dinamiche demografiche in atto.

In assenza di azioni efficaci su tali margini dovremmo rassegnarci a squilibri demografici che si accentuano, e conseguentemente ad una popolazione in età lavorativa che nel complesso si riduce, compensata di fatto solo dall’allungamento dell’età lavorativa (con una platea di lavoratori fortemente sbilanciata sugli uomini di età matura, appartenenti a generazioni ancora demograficamente consistenti).

Il Rapporto CNEL ci dice, insomma, che stabilizzare il numero di occupati nelle età centrali lavorative con aumento dell’occupazione femminile (allineandola alla media europea), far crescere gli occupati under 35 con un miglioramento della transizione scuola-lavoro (anche qui convergendo con gli standard medi europei), in combinazione con politiche di age management che favoriscano la valorizzazione di tutte le fasi della lunga vita attiva, è l’unica strada ancora possibile per riequilibrare e rafforzare il processo di sviluppo del nostro paese. Lasciare, invece, come fatto sinora, che la componente in crescita sia solo quella dei lavoratori over 55 potrà contenere nel breve periodo la spesa pubblica ma non è in grado di far uscire l’Italia da un rischioso percorso di squilibrato declino verso cui ogni anno sta sempre più scivolando

Per rispondere, in definitiva, alle trasformazioni demografiche in atto, continuando a garantire benessere e sviluppo, non c’è altra medicina (peraltro tutt’altro che amara) che rafforzare attrattività e valorizzazione del capitale umano. La qualità della formazione e del lavoro, l’efficienza dei servizi di incontro tra domanda e offerta, oltre che la disponibilità e l’accessibilità degli strumenti per la conciliazione dei percorsi professionali con le scelte di vita, devono essere posti come punti chiave delle politiche di sviluppo. Si tratta, è bene ribadirlo, dell’investimento migliore che l’Italia può fare per dare maggior solidità ad un futuro che oggi poggia su basi molto fragili. Agire in tale direzione ha infatti ricadute positive anche sulla natalità, perché mette giovani e donne nelle condizioni di poter scegliere, se lo desiderano, di avere un figlio. Aiuta, infine, anche a ridurre i divari territoriali perché gli svantaggi di genere e generazionali sono maggiormente presenti nel Mezzogiorno.

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