Quelle scelte tra figli e lavoro che frenano la crescita italiana

Una delle sfide principali che l’Italia deve affrontare nei prossimi decenni è crescere – in termini di ricchezza economica e benessere sociale – in una fase di riduzione senza precedenti della popolazione in età lavorativa.

Una delle sfide principali che l’Italia deve affrontare nei prossimi decenni è crescere – in termini di ricchezza economica e benessere sociale – in una fase di riduzione senza precedenti della popolazione in età lavorativa. Si potrà vincere tale sfida non solo attraverso l’estensione in verticale della vita lavorativa ma anche migliorando in orizzontale le opportunità di effettiva partecipazione di tutti alla vita attiva del paese.

Se questo è vero, una delle leve principali per aumentare la platea degli occupati è incentivare il lavoro femminile. Se da un lato, l’Italia sarà uno dei paesi con maggior riduzione della forza lavoro potenziale da qui al 2050, dall’altro è anche una delle economie avanzate rivelatesi finora meno in grado di impiegare concretamente le capacità e le competenze delle donne nei propri processi di crescita.

Nel nostro paese il tasso di occupazione femminile stenta infatti ad arrivare al 50 percento. Le stesse regioni del Nord Italia raggiungono a malapena il 60% e sono lontane dalle realtà più dinamiche in Europa. Tra i grandi paesi europei, il valore più alto è quello della Germania, vicino al 72%, segue il Regno Unito, poco sopra al 70%, la Francia attorno al 62%, la Polonia poco sopra al 60%, la Spagna attorno al 57%. Peggio di noi solo la Grecia (che però ha un divario di genere meno accentuato del nostro).

Gli squilibri demografici prodotti e la forte necessità di dare ad essi una risposta, sono la dimostrazione più evidente che la riduzione del gender gap non è solo una questione di principio, ma una necessità per crescere in modo solido e strutturale.

Nell’Italia contemporanea non c’è nessun motivo per pensare che due fratelli di sesso diverso possano trovarsi con diverse possibilità di successo nel completare gli studi, nel trovare un lavoro adeguato, nell’ottenere una remunerazione adeguata, nel realizzarsi nella sfera affettiva e familiare. Se tale diversità non solo esiste, ma persiste, è perché vi sono ostacoli oggettivi, ingiustificati, che frenano la valorizzazione del capitale umano femminile.

Come i dati dell’Osservatorio giovani dell’istituto Toniolo evidenziano, in accordo con i risultati registrati in molti altri studi, le donne delle nuove generazioni non pensano di essere e poter fare di meno dei coetanei maschi, anzi in molti campi sono consapevoli di poter ottenere risultati migliori, ma tendono a trovare più ostacoli e sono indotte più facilmente ad accontentarsi o a rinunciare.

Se per millenni forza ed aggressività sono stati requisiti cruciali per sopravvivere, ottenere spazio e raggiungere obiettivi ambiziosi, nelle società contemporanee sono sempre più altre le competenze che contano, molto più in sintonia anche con le doti e le sensibilità femminili. Vari studi mostrano come le donne tendano ad essere spesso più competenti dei coetanei maschi in ambiti di crescente importanza come il problem solving, la capacità di conciliare impegni diversi, la gestione delle relazioni umane. Queste sensibilità e propensioni, se aiutate a mettersi in combinazione virtuosa con competenze tecniche e digitali avanzate, possono rappresentare un decisivo fattore di arricchimento per il sistema produttivo italiano.

Oltre alla necessità di orientare in modo più efficace le scelte formative e professionali nei percorsi femminili, l’altro annoso nodo da sciogliere è quello della conciliazione tra dimensione lavorativa e impegni familiari, sia rispetto ai figli che verso membri anziani non autosufficienti. Le carenze su questo fronte portano, maggiormente che nel resto d’Europa, da un lato, le donne con figli a dover rinunciare al lavoro, d’altro lato, alle donne che lavorano a rinunciare ad avere figli. Quello che ancora facciamo fatica a capire in Italia è che queste rinunce individuali non solo vincolano al ribasso le scelte femminili ma alimentano squilibri che diventano un costo collettivo per le ricadute su: bassa natalità, diseguaglianze sociali, inefficiente utilizzo del capitale umano.

I dati del recente report Istat “Famiglie e mercato del lavoro” evidenziano che tra le coppie con minori solo nel 27,5 percento dei casi entrambi i genitori lavorano a tempo pieno e nel 16% il padre è full-time e la madre part-time. Il contributo femminile all’economia formale e al reddito familiare in presenza di figli continua ad essere fortemente minoritario nel nostro paese, ancor più nelle fasce sociali più svantaggiate. Un potenziamento delle misure di conciliazione avrebbe quindi non solo un effetto positivo sull’occupazione femminile e sulla fecondità, ma anche in termini di riduzione del rischio di povertà materiale ed educativa. Molti studi mostrano in modo consistente come, in particolare, strumenti in grado di implementare efficacemente il diritto ad una istruzione di qualità fin dalla prima infanzia abbiano effetti positivi di lunga durata rilevanti soprattutto sullo sviluppo umano e sulle competenze dei bambini provenienti da famiglie con basse risorse economiche e culturali

La cultura della conciliazione deve, inoltre, poter entrare in modo solido nelle aziende con particolare attenzione a quelle piccole e medie. Come mostrano le esperienze positive del Trentino Alto Adige, è possibile innescare circoli virtuosi di miglioramento del benessere degli impiegati attraverso la sperimentazione di soluzioni organizzative ad hoc, che vanno incentivate in modo sistemico e strategico dalle politiche pubbliche perché producono benefici economici, demografici e sociali sul territorio.

La buona notizia è che per superare gli squilibri demografici crescenti dell’Italia non è necessaria qualche strana cura, ma semplicemente fare ancor più e meglio quello che dovremmo comunque fare come paese, ovvero mettere le persone nelle condizioni di poter realizzare assieme e con successo – indipendentemente dal loro genere e dalla loro origine sociale – le proprie scelte professionali e i propri progetti di vita.

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