Quei 30enni di troppo a casa con i genitori

In larga parte dei paesi europei la maggioranza dei giovani compie il venticinquesimo compleanno sotto un tetto diverso da quello della famiglia di origine. In Italia è, invece, ormai consuetudine trovarsi a vivere ancora nella casa dei genitori al traguardo dei trent’anni.

In larga parte dei paesi europei la maggioranza dei giovani compie il venticinquesimo compleanno sotto un tetto diverso da quello della famiglia di origine. In Italia è, invece, ormai consuetudine trovarsi a vivere ancora nella casa dei genitori al traguardo dei trent’anni.

Alla base di questa ampia e persistente differenza sta un intreccio, difficilmente districabile, di fattori culturali e strutturali. Pensiamo ad un figlio di venticinque anni che annuncia ai genitori l’intenzione di andare a vivere per conto proprio. Possiamo pensare che molte madri italiane reagirebbero con dispiacere. Si chiederebbero dove hanno sbagliato nel rapporto con il figlio, dato che già così presto vuole andarsene. Metterebbero in discussione la propria capacità di cucinare, di stirar bene le camice, di creare un contesto domestico accogliente. Tutto questo ancor più se il figlio è unico e se la madre è casalinga. Pensiamo invece ad un giovane danese della stessa età, che però vive ancora con i genitori e non sta progettando di andarsene.  Anche qui molte madri e padri scandinavi si metterebbero in discussione, ma per motivi opposti. Si chiederebbero dove hanno mancato nel trasmettere al ragazzo la spinta a buttarsi nel mondo, a conquistare propri spazi oltre le mura domestiche, a cercare la propria strada.

Più che l’autonomia in sé, il valore principale che un genitore mediterraneo tende a trasmettere ai figli è quello della solidarietà familiare intergenerazionale, ovvero l’importanza di sostenersi reciprocamente di fronte alle asperità in tutte le fasi della vita. Questo di per sé è positivo. In un contesto però di carenza di adeguati strumenti di welfare attivo, di ridotte opportunità nel mercato del lavoro, di bassa mobilità sociale e crescenti disuguaglianze sociali, il rischio è che nei genitori si rafforzi un atteggiamento iperprotettivo e che i figli tendano a rimanere più a lungo immaturi. La maggior propensione culturale all’aiuto da parte della famiglia di origine e le maggiori difficoltà oggettive all’uscita portano ad adottare una tattica dilatoria. Detto in altre parole, il porto è molto più sicuro e accogliente, rispetto agli altri paesi, e il mare aperto è molto più burrascoso e con un sistema di aiuto pubblico alle imbarcazioni in difficoltà e di riposizionamento sulla rotta, molto meno solido ed efficace. Anche dopo essersi risolti ad uscire in mare aperto, molti giovani italiani si trovano a fare marcia indietro o comunque tornano, in vari modi, ad affidarsi all’ammortizzatore sociale più importante del nostro paese: la famiglia di origine. Del resto, se osserviamo la distribuzione della spesa sociale italiana risulta evidente come per le voci che vanno a maggior beneficio delle generazioni più anziane, come pensioni e salute pubblica, non spendiamo meno degli altri paesi, mentre siamo sensibilmente deficitari sul sostegno attivo al reddito nel caso di disoccupazione giovanile, nelle politiche della casa e contro l’esclusione sociale. Che oltre ai fattori culturali incidano sempre di più anche le condizioni oggettive lo testimonia sia il fatto che – secondo i dati Istat – negli ultimi quindici anni il numero di chi dichiara di vivere con i genitori “perché sto bene così, conservo comunque la mia libertà” è diventato minoritario rispetto a chi afferma di non avere un reddito adeguato e continuativo, sia il sorpasso del Sud rispetto al Nord. Ancora alla fine del secolo scorso la geografia delle regioni italiane rispetto al tasso di disoccupazione giovanile non corrispondeva a quella dell’incidenza degli under 30 nella casa dei genitori, ora emerge invece una forte corrispondenza. Nel Sud Italia, più che altrove, i giovani si trovano alla fine degli studi davanti alla prospettiva di rimanere a lungo a carico di mamma e papà o alla scelta di uscire, ma per andarsene molto lontano, spesso oltre confine.

La questione culturale quindi c’è, ma ha a che fare non solo con l’eccesso di protezione privata dei singoli genitori verso i figli ma anche con la difficoltà collettiva a riconoscere le nuove generazioni come il bene pubblico più importante su cui investire per ampliare orizzonti presenti e futuri della navigazione di tutto il paese.

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