I nuovi dati Istat sulle nascite restituiscono il ritratto di un’Italia che si sta sempre più impoverendo dal basso, con la conseguenza di rendere strutturalmente sempre più fragile tutto il sistema paese. Se consideriamo il periodo seguito agli anni più acuti della crisi, ovvero dal 2013 al 2017, le nascite nel complesso dell’Unione europea sono rimaste poco sopra ai 5 milioni. Tra i grandi paesi europei la Germania ha ottenuto un aumento di circa il 15%, mentre Francia e Regno Unito hanno subito una moderata flessione, ma partendo da valori elevati. L’Italia è il paese con il crollo maggiore, superiore al 10%. Risulta quindi lo stato membro che più sta contribuendo in modo assoluto a trascinare verso il basso la natalità europea.
Nel 2018 i dati non sono certo migliorati: rispetto al 2017 il tasso di fecondità è sceso da 1,32 a 1,29 e le nascite si sono ridotte da 458 mila a meno di 440 mila. I primi sei mesi del 2019 mostrano, poi, una ulteriore riduzione di 5 mila rispetto al primo semestre del 2018. Gli squilibri prodotti sono tali che gli attuali ottantenni italiani, oltre 517 mila, hanno più coetanei rispetto ai nati nel 2018.
Alla luce di queste dinamiche possiamo lasciar da parte l’obiettivo di tornare a crescere nei prossimi decenni in termini demografici e dare per scontato l’aumento della popolazione anziana. Quello che però ancora possiamo fare – per un futuro che consenta di continuare a produrre benessere in un sistema sociale sostenibile – è potenziare quantitativamente e qualitativamente la presenza delle nuove generazioni. Ma è soprattutto sulla dimensione qualitativa che bisogna fortemente investire per avere come ricaduta anche un irrobustimento quantitativo dei giovani nella popolazione, nella società e nel sistema produttivo.
Una sfida non scontata, visto che un altro record negativo che caratterizza il nostro paese è l’elevata percentuale di NEET, ovvero di chi ha concluso gli studi ma non si è inserito nel mondo del lavoro. Tale indicatore – per una combinazione di fragilità educative e inefficienti politiche attive – presenta uno dei valori più alti in Europa non solo tra i ventenni ma anche tra i trentenni. Nella fascia 30-34 anni si posiziona 10 punti percentuali sopra la media europea e risulta essere il doppio rispetto al dato tedesco. Le difficoltà di conquista di una propria autonomia dalla famiglia di origine e di pieno ingresso solido nel mondo del lavoro portano l’età media al primo figlio ad essere la più tardiva del continente, pari a 31,2 anni per le donne italiane.
I dati di una indagine comparativa internazionale condotta nel 2018 dall’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo sui giovani tra i 20 e i 34 anni, mostrano come nonostante la preferenza sul numero di figli rimanga vicina a due, sia progressivamente aumentata, più in Italia che nel resto d’Europa, l’accettazione della possibilità di non averne o averne solo uno. Forte risulta inoltre il legame con le risorse socio-culturali di partenza. Proiettandosi nel futuro, a 45 anni, il 21,9% degli intervistati pensa che non avrà figli, ma si sale a ben il 29,6% per chi si è fermato alla scuola dell’obbligo. Inoltre, su una scala da 1 a 10 del valore assegnato all’avere figli come traguardo positivo nella propria realizzazione personale, a rispondere 6 e oltre risulta essere quasi il 60% tra i laureati contro meno del 45% di chi ha titolo di studio basso. Un presente con basse prospettive porta non solo a ridurre gli obiettivi raggiungibili ma anche il valore assegnato ad essi, minimizzando così il costo psicologico del non raggiungerli.
Questi dati suggeriscono come in assenza di politiche adeguate – in grado di dare un segnale forte e siano il coerente avvio di un processo di miglioramento delle prospettive occupazionali delle nuove generazioni e di potenziamento dei servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia – il rischio sia quello di andare verso un futuro in cui la scelta di avere un figlio risulta sempre più limitata a chi ha proprie motivazioni forti e appartiene alle classi sociali più benestanti.