Nelle società del passato la durata di vita era mediamente molto breve a causa di alti rischi di morte a tutte le età. Oggi alcune limitate aree del pianeta si trovano ancora in tale condizione, ma la grande maggioranza della popolazione mondiale vive in contesti in cui l’aspettativa di vita è in continuo miglioramento.
La longevità va considerata uno dei processi positivi del XXI secolo. Gli adulti italiani si aspettano di giungere almeno fino agli 80 anni, i giovani di superare i 90, i nuovi nati, continuando con i ritmi finora osservati, potrebbero arrivare in media ai 100. Ma se sin qui sono aumentate, tendenzialmente, sia le prospettive di vita che le condizioni di benessere di ogni generazione rispetto alla precedente, non è per nulla scontato che ciò avverrà automaticamente anche per le nuove generazioni. L’allungamento della vita nel secolo scorso è stato ottenuto soprattutto abbattendo i rischi di morte in età infantile, giovanile e adulta. La nuova longevità conquistata in questo secolo è invece sempre di più corrispondente a anni di vita guadagnati nelle età che in passato consideravamo anziane. Ciò pone una duplice sfida. Quella di trasformare la quantità di vita in più in qualità, sia nella dimensione personale che sociale. E quella del rapporto e degli equilibri tra generazioni. L’estensione della vita in età avanzata porta ad un invecchiamento della popolazione, ovvero ad una crescita del peso delle vecchie generazioni su quelle più giovani. La longevità aumenta però sì il numero di persone che entrano e permangono in età matura, ma non riduce il numero di giovani. Quello che complica davvero le cose è il crollo delle nascite e la persistenza della fecondità sotto i due figli per donna. In tal caso, a fronte dell’aumento degli anziani, si produce anche una riduzione di giovani e, in prospettiva, anche di persone nelle età adulte centrali. E’ quanto sta accadendo all’Italia.
Se non gestita in modo adeguato questa trasformazione demografica rischia di portare ad una riduzione della crescita economica, ad una riduzione della sostenibilità della spesa sociale, ad un continuo avvitamento verso il basso delle nascite. Questo perché si indebolisce la componente che tipicamente fornisce il maggior contributo in termini produttivi e riproduttivi, ovvero la popolazione tra i 25 i 45 anni. Se il paese invecchia, aumenta la spesa sociale e sanitaria assorbita dalla popolazione anziana; ma se nel contempo non riesce a mettere adeguate risorse per investire sulla formazione delle nuove generazioni, sulle politiche attive del lavoro, su ricerca, sviluppo e innovazione, sulle misure di sostegno alla formazione di nuovi nuclei familiari, sulla conciliazione tra lavoro e famiglia, si troverà non solo a veder ridurre sempre più la presenza quantitativa delle nuove generazioni, ma anche la qualità del loro contributo alla crescita economica e alla produzione di benessere sociale. Con il rischio di creare anche futuri anziani poveri.
Il ritratto fornito dal rapporto dell’Ocse “Preventing Ageing Unequally” racconta impietosamente come abbiamo accentuato gli squilibri demografici e come (da troppo tempo) non riusciamo a riaggiustare il nostro percorso di sviluppo dando più solidità e valore alle scelte professionali e di vita delle nuove generazioni. Le difficoltà dei giovani, oltre che dalla crisi, sono accentuate da due aspetti: la maggior complessità della realtà di oggi e il maggior debito pubblico ereditato. Il primo aspetto rende più difficile fare scelte, senza un sistema culturale che le orienti e le supporti, il secondo vincola verso il basso l’investimento in strumenti pubblici che consentano a tali scelte di realizzarsi con successo. Ai giovani rimane l’aiuto privato dei genitori, che però rischia di scadere in iperprotezione e rendere persistenti le diseguaglianze di partenza.
Quanto dobbiamo attendere una vera politica, in grado di riconoscere le sfide che la demografia pone e in grado di fornire risposte all’altezza delle potenzialità che questo paese può (ancora) esprimere?
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