Il rapporto problematico tra giovani e lavoro, richiamato con significativa convergenza nei messaggi di fine anno del Presidente Mattarella e di papa Francesco, è un nodo che da troppo tempo soffoca le possibilità di crescita del paese. Ma se vogliamo davvero scioglierlo dobbiamo prima di tutto chiederci cosa intendiamo per “crescita”. Dibattiti pubblici e policy continuano, infatti, ad essere centrati sul “come crescere”, senza una chiara idea di “quale crescita”. Se è facile, infatti, riconoscere che il modello di sviluppo che ha caratterizzato il XX secolo non funziona più e non è più sostenibile, è molto più arduo capire cosa può avere successo nel futuro, tanto più in un mondo che cambia rapidamente e in modo imprevisto.
Un criterio guida però lo abbiamo: deve crescere ciò che consente alle nuove generazioni di produrre e condividere nuovo benessere. In coerenza con questo, il concetto di crescita da adottare non dovrebbe essere basato su quanto oggi consumiamo di più rispetto a ieri, ma su ciò che aumenta le possibilità di generare benessere domani rispetto ad oggi. Una comunità non può rinunciare a migliorarsi, se non vuole condannare i figli a star peggio dei genitori e i nipoti a star ancor peggio dei figli. La popolazione di un paese non è, infatti, fatta di essere immortali ma evolve con il rinnovo generazionale. Tale rinnovo non produce miglioramento se quando arriva il tempo dei figli, al centro del palcoscenico c’è ancora la generazione dei genitori, o quando il lavoro di un trentenne ha meno valore della pensione del nonno ottantenne. Se non vogliamo allora limitarci a difendere le posizione acquisite, dobbiamo decidere in che cosa vogliamo che il domani sia diverso e migliore dall’oggi, per poi mettere le nostre migliori risorse al servizio della realizzazione di tale differenza. E ciò che rende diverso il futuro dal passato sono soprattutto le stesse nuove generazioni, assieme ai beni materiali e immateriali che possono produrre.
In questa prospettiva risulta ancora più chiaro, richiamando le parole di papa Francesco, quanto l’Italia sia un paese in grave debito nei confronti del futuro. Non solo per l’entità del debito pubblico accumulato, ma per aver complessivamente indebolito anziché rafforzato la possibilità che le nuove generazioni siano il pilastro solido attorno al quale edificare il bene comune. Anziché essere il motore di una economia che cresce, da troppo tempo i giovani italiani si trovano relegati sui sedili posteriori di un paese che procede come un’auto con il freno tirato. Ad agire su tale freno sono sia il timore di perdere le sicurezze del passato sia l’incertezza sul percorso da intraprendere. Entrambi tali fattori sono accentuati dall’assenza di un progetto convincente e credibile di paese in grado di anticipare un bilancio positivo tra ciò che siamo disposti a lasciare e ciò che possiamo ottenere.
Pensiamo, per essere ancora più concreti, all’Italia del 2030. Coloro che compiranno 17 anni nell’anno appena iniziato, nati nel 2000, avranno 30 anni in quella data. Chiediamoci allora cosa auspichiamo che l’Italia possa diventare con essi, in coerenza con il mondo che cambia, con desideri delle nuove generazioni, con le specificità della nostra tradizione. Vogliamo allora che siano in larga parte dipendenti dai genitori o autonomi e intraprendenti? Utilizzati come manodopera a basso costo dalle aziende o leva per aumentare la capacità di innovazione e la competitività del sistema produttivo? In conflitto al ribasso su vecchie posizioni o in grado di contribuire a generare nuovo di qualità? Costo sociale o fonte di ricchezza e benessere per tutti? Il primo caso ci condanna a rischi di impoverimento sempre più elevati per il peggioramento progressivo, con l’invecchiamento della popolazione, del rapporto tra pensionati e popolazione attiva. Il secondo caso è invece destinato, come finora accaduto, a rimanere solo un vago auspicio senza un ampio confronto che porti ad una visione condivisa di cosa vuol essere l’Italia nei prossimi decenni e assegni alle nuove generazioni un ruolo centrale nel farla realizzare. Nel processo di elaborazione di questa visione siamo all’anno zero o quasi. In ogni caso il 2017 è l’anno migliore, escludendo quelli passati, per iniziare.