Negli ultimi dieci anni il debito pubblico non è diminuito; la spesa sociale continua ad essere tra le più squilibrate in Europa a svantaggio dei giovani; le soglie anagrafiche dell’elettorato attivo e passivo continuano a essere tra le più restrittive tra le democrazie occidentali; la presenza delle nuove generazioni nella società e nel mondo del lavoro si è ulteriormente affievolita. Nelle conclusioni del libro “Non è un paese per giovani”, pubblicato nel 2009, quelli appena elencati erano posti come i quattro muri da abbattere per aprire alle nuove generazioni la strada verso il futuro. A dieci anni di distanza non solo sono ancora tutti lì, ma nel complesso appaiono più insormontabili. Il libro, scritto a quattro mani insieme a Elisabetta Ambrosi, nasceva come un pamphlet, con un titolo d’effetto per scuotere l’opinione pubblica. Invece negli anni successivi, complice la crisi economica, il titolo è via via diventato uno slogan che ritrae una condizione di fatto. Con il rischio ora di tramutarsi nella profezia che si autoadempie di un Paese condannato ad un ineluttabile declino.
Difficile dire oggi in che cosa la condizione dei giovani in Italia sia migliorata. I meccanismi inceppati, che frenano la capacità di ridare vigore al Paese attraverso un’inclusione solida e qualificata delle nuove generazioni nei processi di crescita culturale ed economica sono ancora tutti presenti e riconoscibili. L’invito contenuto nel libro era quello di riconoscere che ogni generazione è giovane in modo diverso dalle precedenti. E questo è ancor più vero in un mondo che cambia sempre più rapidamente. Ne consegue la necessità di non far prevalere le aspettative degli adulti, ma favorire la possibilità che desideri e progetti di vita dei giovani possano maturare con consapevolezza e incontrare strumenti adeguati per una loro piena realizzazione. Assieme a tale invito c’era quello di riconoscere di essere entrati in un secolo nuovo che richiede non solo nuovi strumenti ma anche un nuovo approccio per costruire benessere con le nuove generazioni in un contesto di crescente complessità e incertezza. Un approccio che deve mettere al centro la qualità (sia in termini di formazione, che di servizi, che di lavoro, ma anche nei processi di produzione e consumo).
Il Paese ha invece continuato a disinvestire sulle nuove generazioni, sia quantitativamente che qualitativamente. Chi è entrato nella vita adulta nel passaggio dal secolo scorso a quello in corso si è trovato a vivere in uno dei Paesi avanzati con più accentuato debito pubblico e invecchiamento della popolazione. Ma un Paese che si trova in tali condizioni ha ancor più bisogno di alimentare crescita e sostenibilità attraverso un potenziamento del contributo solido e qualificato delle nuove generazioni. Non è solo questione di generosità nei confronti dei giovani, è tutta una comunità che beneficia dalla possibilità che la transizione alla vita adulta si compia con successo consentendo alle nuove generazioni di realizzare i propri obiettivi professionali e i propri progetti di vita. Se chi si affaccia alla vita adulta non trova lavoro, non forma una famiglia, non ha figli, progressivamente è tutta la società che si impoverisce e implode.
E invece la politica ha utilizzato la spiccata solidarietà intergenerazionale delle famiglie italiane come alibi per tener basso l’investimento pubblico in voci come la formazione, i servizi efficienti per l’accesso al lavoro, l’housing sociale. Ha utilizzato la crisi economica come alibi per ridurre le misure di welfare anziché riorientarle e potenziarle. Ha utilizzato l’articolato tessuto delle piccole e medie imprese come alibi per la carenza di politiche di sviluppo e basso investimento in ricerca e innovazione, lasciandole resistere sul mercato con contratti al ribasso anziché incentivarle a diventare competitive facendo leva sul capitale umano. Ha utilizzato la consistente presenza dei Boomers (i nati negli anni Cinquanta e Sessanta) nelle età più produttive come alibi per non considerare prioritario un rafforzamento, con competenze adeguate e strumenti efficaci, dell’ingresso delle nuove generazioni. Con la conseguenza di trovarci ora con una massiccia transizione dei maturi Boomers verso la pensione ma un debole e incerto afflusso di giovani-adulti (i Millennials) verso il centro della vita attiva.
Gli effetti del disinvestimento sulle nuove generazioni risultano oggi evidenti su tutta la transizione scuola-lavoro e sugli eventi chiave della transizione alla vita adulta (come l’autonomia dalla famiglia di origine e costituzione di una propria famiglia). I dati ci dicono che abbiamo una delle percentuali più elevate in Europa di dispersione scolastica, oltre che una delle percentuali più basse di chi arriva a laurearsi. A parità di livello di istruzione, più deboli risultano le competenze di base e avanzate (come evidenziato anche nel recente Rapporto “Pisa” 2018 dell’Ocse). Queste fragilità formative, assieme alla carenza di servizi efficienti di riqualificazione e di incontro tra domanda e offerta, stanno alla base anche del record italiano di “Neet”, ovvero di under 35 che non studiano e non lavorano. Inoltre, chi è ben formato e ha un elevato titolo di studio si trova con un alto rischio di overeducation, ovvero di svolgere un lavoro che richiede livelli più bassi rispetto alla propria formazione. Per molti di essi la decisione è tra rassegnarsi a non dare il meglio di sé o provare a cercare migliori opportunità all’estero.
Un intreccio di vulnerabilità e di carenza di valorizzazione che frena anche le scelte di autonomia e responsabilità nell’accesso all’età adulta. Siamo di conseguenza anche il paese in Europa con maggior posticipazione dell’età in cui si ha il primo figlio e con più ridotta progressione verso il secondo. Negli ultimi dieci anni è inoltre cresciuto anche il rischio di povertà degli under 35 con figli rispetto alle famiglie composte da over 65. Possiamo quindi dirci “un Paese per giovani”? Sicuramente no. Lo siamo oggi ancor meno che in passato. Per non rinunciare a diventarlo è necessario riconoscere che le nostre potenzialità sono legate alla capacità di mettere tutti, a partire dalle età più giovani fino a quelle più avanzate, nelle condizioni di dare il meglio di sé. Con alla base una politica che torna a investire sulle persone e a sostenere scelte educative di valore, un inserimento qualificato nel mondo del lavoro, una realizzazione piena dei propri progetti di vita. Finora siamo partiti dalla fine, ovvero dal garantire benessere e sicurezza delle vecchie generazioni, per poi risalire via via verso i più giovani a cui destinare ciò che rimaneva come risorse pubbliche. Dobbiamo, invece, avere il coraggio di invertire l’approccio: partire prioritariamente dall’investimento nella formazione delle nuove generazioni, passando attraverso la promozione del loro ruolo attivo, per arrivare a ottenere anche una demografia più solida, un welfare più sostenibile, un maggior dinamismo economico, che porta anche a maggior ricchezza da redistribuire verso tutti e a favore di una vita di qualità sempre più lunga.
Il nucleo centrale dei Millennials aveva poco più di vent’anni quando è stato scritto il nostro libro e a loro era affidata la speranza dell’impostazione di un passo nuovo nel far incedere il Paese nel secondo decennio del secolo. Partiva con l’ambizione di diventare protagonista dei cambiamenti e si è trovato invece schiacciato in difesa. Ora nella fase giovanile si trova la Generazione Zeta, quella che scende in piazza per la salute del pianeta. Non esprime solo l’idea di un patrimonio naturale come bene comune, ma anche la volontà di uscire dalla gabbia del presente e adottare un’idea positiva di futuro da realizzare con il proprio impegno, in coerenza con proprie aspettative e sensibilità. Aiutare a dar forza e consapevolezza a tale energia positiva è il compito per il prossimo decennio di chi crede che l’Italia sia ancora in tempo per mettersi all’altezza delle sfide di questo secolo, arricchendo con un proprio contributo riconoscibile di valore e bellezza i processi più promettenti di produzione di benessere nel mondo che cambia.
Demografo, Università Cattolica, coordinatore del Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo