Non c’è alcun motivo per pensare che due gemelli di sesso diverso che nascono oggi debbano trovarsi a metà di questo secolo, quando avranno 28 anni, con opportunità diverse di occupazione e remunerazione solo perché uno maschio e l’altra femmina. Nemmeno si può pensare che per aver stesse possibilità lavorative chi è donna debba rinunciare ad avere figli, come invece accade alle 28enni attuali. Il tasso di fecondità delle under 30 italiane è tra i più bassi in Europa e lo stesso vale per il tasso di occupazione femminile in età 25-29 anni. Quest’ultimo risulta attorno al 50% contro il 65% della Spagna, il 70% medio europeo, il 75% della Francia, con valori ancor più alti nel Regno Unito, in Germania e nei paesi scandinavi. Non migliora molto nella fascia tra i 30 e i 34 anni, dove la percentuale di occupate in Italia arriva al 57%, non riuscendo a recuperare nemmeno il livello medio europeo osservato nella fascia precedente.
Se c’è quindi una difficoltà generale del sistema paese a promuovere un’inclusione lavorativa piena delle nuove generazioni, i freni risultano, come ben noto, ancor più accentuati per le donne. Questo significa anche che i progressi nel rafforzare la partecipazione femminile sono quelli sui quali c’è maggior margine per migliorare la forza lavoro di una popolazione che invecchia. Non è per nulla semplice e scontato riuscirci, ma sappiamo quali sono le resistenze maggiori da rimuovere.
I fronti principali su cui agire sono due e richiedono che venga favorito – mutuando una nota espressione dal lessico politico – un processo di “convergenza parallela” tra donne e uomini. La convergenza riguarda le attese di valorizzazione del capitale umano, ma ciò non implica che i percorsi debbano essere sovrapposti e indifferenziati. Fare in modo che le diversità diventino valore aggiunto e non diseguaglianza è una delle sfide principali per uno sviluppo inclusivo e sostenibile nelle società moderne avanzate. Da qui il riconoscimento delle specificità dei percorsi paralleli. Agire, infatti, solo sulla convergenza è come pretendere che le donne possano eccellere solo se adottano un avatar maschile esterno. La conseguenza è una carenza di donne al vertice o la possibilità di arrivarci solo se si rinuncia ad avere figli e si adottano schemi maschili, spesso accentuandoli. Tutto ciò risulta molto rassicurante per il mondo maschile perché il dominio culturale non viene rimesso in discussione. Ma non consente ad una componente cruciale del paese di sprigionare tutto il proprio potenziale nel generare benessere e sviluppo.
In questa prospettiva il primo fronte su cui agire è quello della formazione. Le giovani donne presentano una più bassa dispersione scolastica e raggiungono titoli di studio più elevati dei coetanei. Sono però molto meno messe nelle condizioni di combinare le sensibilità e le modalità di apprendimento che le caratterizzano con competenze tecniche e informatiche avanzate. Tra chi arriva al livello di formazione terziaria, molto più bassa è l’incidenza femminile sia nel percorso non accademico (quello degli Istituti Tecnici superiori) che fornisce alte opportunità di inserimento nel mondo del lavoro, sia nelle lauree più richieste oggi e domani dal mercato come quelle economiche e scientifiche e ancor più Ingegneria e Tecnologie ICT. Sono, tra l’altro, anche quelle a cui sono maggiormente legate le opportunità degli investimenti nella transizione verde e digitale. In realtà i percorsi più appetibili per le imprese più dinamiche e avanzate, in grado di valorizzare al meglio il capitale umano delle nuove generazioni, sono quelli che combinano le competenze tecniche con quelle sociali ed umanistiche. L’idea quindi che chi sceglie di specializzarsi in ambito tecnologico debba rinunciare a sviluppare a valorizzare i propri talenti in una dimensione culturale più ampia è del tutto anacronistica. Questa prospettiva di contaminazione va fortemente introdotta nel percorso precedente, in particolare durante la scuola secondaria, sia in modo orizzontale attraverso una maggiore interazione tra le singole materie insegnate, sia in modo verticale con l’educazione alla cittadinanza che aiuta a inserire le conoscenze acquisite nel contesto delle sfide del proprio tempo, oltre che attraverso gli strumenti di orientamento.
Come le donne non sono meno predisposte alle materie tecniche ma vanno aiutate a trovare la declinazione più adatta per potersi appassionare ad esse e metterle in coerenza con proprie caratteristiche e sensibilità, così gli uomini non sono meno predisposti all’attività sociale e di cura ma hanno bisogno di sviluppare i propri specifici codici per coltivarla ed esercitarla (verso le generazioni più giovani e quelle più anziane). In particolare, dopo la nascita di un figlio entrambi i genitori possono, ciascuno e assieme, sviluppare ed arricchire la relazione con esso (o con essa). Questo è il secondo cruciale fronte su cui agire. La combinazione tra sovraccarico di accudimento materno con rinuncia al lavoro e sovraccarico di lavoro paterno con rinuncia al rapporto di attaccamento, è parte di un modello che nel mondo attuale pone vincoli anziché promuovere benessere. E’ necessario, allora, superare persistenti stereotipi anche attraverso nuovi modelli culturali favoriti da politiche mirate, in grado di aiutare a rendere la scelta e l’esperienza di un figlio condivisa tra i genitori, ovvero convergente, ma anche armonizzata con le altre scelte nei percorsi paralleli di carriera.
A ben vedere, quindi, l’aumento dell’occupazione femminile (o ancor, meglio, la valorizzazione dello specifico capitale umano femminile in ogni ambito), inserita nella giusta prospettiva, non è solo una questione di rivendicazioni e diritti, verso i quali l’attuale Governo appare tiepido, ma aiuta, pragmaticamente, tutto il paese a funzionare meglio. Stimola, infatti, un rinnovo dei percorsi formativi in coerenza con le competenze richieste, una riorganizzazione familiare che migliora la qualità delle relazioni, un rafforzamento dei processi di produzione di benessere nella società e nell’economia. Consente, inoltre, di contenere gli squilibri demografici di una popolazione che invecchia, ma anche di ridurre le diseguaglianze sociali e territoriali, dato che la bassa occupazione femminile penalizza soprattutto le regioni del Sud e l’accesso ad un secondo reddito delle famiglie con figli. Favorisce, per essere ancora più espliciti, la natalità e riduce la dipendenza passiva dal reddito di cittadinanza.
Attualmente il nostro gap occupazionale di genere è di quasi 20 punti percentuali contro gli 11 punti della media europea. Un abisso. L’auspicio è che il primo Governo italiano con premier donna ponga tra i suoi principali obiettivi – sulla spinta delle risorse e delle misure previste nel Piano nazionale di ripresa e resilienza – il dimezzamento di tale enorme divario entro il decennio in corso, operando in modo sinergico su tutto il corso di vita, con particolare attenzione alla fase di formazione (di sé, attraverso l’istruzione, e di una propria famiglia).