Magari bastassero le buone intenzioni per risollevare la cronica denatalità italiana. Per riuscirci serve molto di più, a partire da una potenziata capacità di lettura della realtà in mutamento, passando per una maggiore disponibilità a mettere in discussione quello che in passato non ha funzionato, per arrivare ad una più ampia visione e condivisione dell’azione politica.
Sabato scorso il Ministro Costa, intervenendo ad un convegno del Forum delle associazioni familiari, aveva mostrato grande apertura verso il “fattore famiglia”, una misura ispirata al “quoziente familiare” francese che mira a rendere più equo il sistema fiscale riducendo il costo dei figli a carico. Il giorno dopo il Ministro Lorenzin ha rilanciato in tutt’altra direzione con il bonus bebè, presentato come principale soluzione al crac demografico. Il Ministro Padoan, come raccontano le cronache, sembra sia rimasto tiepido. Palazzo Chigi ha successivamente precisato che il bonus è in realtà solo una delle misure prese in esame. Come indica anche il rapporto del think tank Volta, si dovrebbe partire da un organico ripensamento degli strumenti di welfare.
Questa vicenda, mostra come il tema demografico sia sentito nella sua urgenza, ma mette anche in luce tutti i limiti della politica nel dare una risposta all’altezza della sfida. E’ giusto preoccuparsi. La popolazione italiana è come un edificio sul vertice del quale aggiungiamo continuamente nuovi piani, per il fatto che si vive sempre più a lungo, ma con parte inferiore e fondamenta sempre più fragili, per l’erosione prodotta dalle nascite. E’ però sbagliato trattare i temi demografici con la logica dell’emergenza, siano essi l’immigrazione, l’invecchiamento o le trasformazioni familiari. Un figlio, in particolare, è un’assunzione di impegno a lungo termine. Per mettere in campo politiche efficaci è allora necessario prima di tutto far chiarezza sui meccanismi che frenano o favoriscono tale scelta e sulla capacità dei vari strumenti di policy di intervenire con successo su tali meccanismi.
Questo è ancor più vero oggi. Nelle società moderne avanzate “l’onere della prova” delle decisioni riproduttive si è invertito. Se in passato l’atteggiamento di base era quello di avere figli e per non averne si doveva operare una scelta esplicita, da qualche decennio la condizione di partenza è invece l’assenza di figli, che rimane tale se non si attiva una scelta deliberata sostenuta da condizioni positive. Di conseguenza, se un paese vuole ridurre le nascite, non è necessario che disincentivi le persone a fare figli, è sufficiente non favorire il crearsi e consolidarsi di condizioni adatte. Viceversa, se si considera auspicabile che la maggior parte delle persone non rinunci a realizzare il numero di figli desiderato è necessario mettere in campo azioni ad esplicito e solido supporto di tutto il processo decisionale. In primo luogo, il desiderio deve poter trasformarsi in vero progetto di vita. Tale progetto deve poi poter trovare possibilità di effettiva e concreta realizzazione. Infine, è necessario che vi sia la ragionevole aspettativa di un successo nell’esito finale. Tutte queste fasi sono oggi entrate in crisi. Le difficoltà legate alla continuità di reddito e all’accesso alla casa hanno fatto crollare la fecondità degli under 30 su valori tra i più bassi in Europa. L’età tardiva del primo figlio e l’eccesso di complicazioni nella conciliazione tra famiglia e lavoro frenano poi la possibilità di andar oltre.
Il bonus bebè non sembra in grado di intervenire efficacemente su nessuno di questi meccanismi. Per come è configurato più che favorire la natalità può essere utile come contrasto al rischio di povertà, particolarmente alto in Italia per le famiglie con oltre due figli. Indicare obiettivi chiari e misurabili, oltre a dar conto dell’impatto del bonus precedente prima di rilanciare nella stessa direzione, aiuterebbe a capire se al di là delle buone intenzioni c’è davvero un serio impegno della politica a restituire fiducia e vitalità al paese.