Paese sprovveduto senza progetti di vita

Quel che manca all’Italia è soprattutto ciò che i giovani possono fare quando sono messi nelle condizioni ideali per dare il meglio di sé. Manca perché mancano i giovani.

Quel che manca all’Italia è soprattutto ciò che i giovani possono fare quando sono messi nelle condizioni ideali per dare il meglio di sé. Manca perché mancano i giovani. Ma i giovani mancano perché non trovano in Italia ciò di cui hanno bisogno. Il che li porta altrove. La perdita dei giovani per l’Italia è un triplo danno: il costo di averli formati; il mancato rendimento che si sarebbe ottenuto se fossero rimasti; il rendere più competitivi i Paesi con cui ci confrontiamo sul mercato internazionale. Secondo lo schema del saggio semiserio di Carlo M. Cipolla sulla stupidità, questo saldo negativo in uscita ci colloca nel quadrante degli sprovveduti (quelli che generano beneficio per gli altri con perdita per sé).

Ma i giovani mancano anche perché i figli rimangono figli e non fanno figli. L’Italia è uno dei Paesi in Europa con tempi più lunghi di conquista dell’indipendenza e formazione di una propria famiglia. Più tardi, insomma, si esce dall’essere a carico delle generazioni precedenti (l’aiuto privato di genitori e nonni) per diventare soggetti attivi nel generare futuro.

I giovani italiani non valgono meno rispetto ai coetanei europei, semplicemente non sono messi nella stessa condizione di produrre valore nella propria vita e nel territorio in cui vivono. Per quanto ci siano recenti segnali incoraggianti sulla riduzione della dispersione scolastica e sulla diminuzione dei Neet, entrambi questi indicatori restano ampiamente tra i peggiori in Europa. Le persistenti difficoltà nella transizione scuola-lavoro si riflettono sull’occupazione giovanile: ad avere un impiego nella fascia 15-29 anni, secondo Eurostat, è circa uno su due nella Ue, contro poco più di uno su tre in Italia (siamo sotto anche a Grecia e Bulgaria). Anche i divari di genere e territoriali che ci caratterizzano, nonostante qualche progresso, rimangono tra i più ampi in Europa.

I recenti segnali positivi sono promettenti, ma non tali da configurarsi come solido avvio di un processo di convergenza verso la media europea. Inoltre, non risultano ancora tali da generare ricadute rilevanti sulla realizzazione dei progetti di vita. Continuiamo, in particolare, ad essere il Paese con l’età più tardiva al primo figlio. Tale indicatore può essere considerato quello più informativo sul successo della transizione scuola-lavoro e sulle prospettive di sviluppo di un territorio. L’arrivo di un figlio è la scelta più impegnativa e responsabilizzante nei confronti del futuro. Quanti più giovani in un territorio si troveranno con solide prospettive occupazionali e di reddito, presenza di servizi per l’infanzia di qualità e strumenti efficaci di conciliazione, possibilità di accesso ad una abitazione (non solo mutuo, ma anche affitti abbordabili), tanto maggiore sarà la quota di coloro che anziché rinviare la decisione di avere un figlio la potranno liberamente realizzare. Nelle società mature avanzate, dove aumenta il numero di nuovi genitori significa che le condizioni e le prospettive delle nuove generazioni sono più solide e ne derivano anche più solide basi di sviluppo futuro.

Come ha recentemente affermato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, «l’investimento sui giovani rappresenta semplicemente il futuro» e il non farlo ci espone ai costi di crescenti squilibri. Ogni nuova finanziaria dovrebbe allora dare il messaggio che l’Italia investe maggiormente sulla qualità delle nuove generazioni rispetto agli altri Paesi, perché ha ancor più bisogno del valore che da tale investimento si può generare, non limitarsi invece a bonus estemporanei e misure marginali. Senza aumentare in modo lungimirante tale valore diventerà ogni anno sempre meno sostenibile il costo del debito pubblico e dell’invecchiamento della popolazione.

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