Non è eccessivo riconoscere che l’Italia si trovi oggi davanti ad un drammatico bivio. Da un lato c’è il sentiero stretto, tutto in salita, che va verso una nuova fase di sviluppo economico e sociale. Sull’altro lato c’è un’ampia strada in discesa “che porta al disastro” – come ammoniva il direttore Tamburini in un editoriale pubblicato poco prima della seconda ondata pandemica – “reso ancora più drammatico dalla montagna di debito pubblico”. Le nostre fragilità passate e l’impatto della crisi sanitaria ci spingono verso la seconda strada. Servirà, nel nuovo anno, tutta la nostra volontà e lucidità d’intenti per imboccare con decisione la prima. Tra gli squilibri accumulati che ci sbilanciano verso la direzione sbagliata, assieme all’indebitamento c’è anche, forse ancor più, l’invecchiamento demografico. Si tratta di due enormi macigni che gravano sul debole capitale umano delle nuove generazioni, a cui si associa la scarsa capacità di piena valorizzazione nella società e nel mondo del lavoro.
Su questi fronti, come ben noto, occupiamo le posizioni peggiori in Europa, ma sono anche gli stessi su cui la diffusione del virus rischia maggiormente di farci arretrare. Dobbiamo allora evitare di indebolire la risposta resiliente che possiamo dare alla pandemia – risollevandoci anche dagli squilibri e risanando le fragilità pregresse – che risiede principalmente nel capitale umano presente e futuro all’interno della forza lavoro.
Non sappiamo quanto sarà il prodotto interno lordo nell’Italia del 2030 o come saranno le finanze pubbliche nel 2040, ma abbiamo cognizione chiara di come sarà la struttura della popolazione. In particolare sappiamo – e i dati del Censimento permanente Istat, finalmente disponibili, lo hanno ulteriormente confermato – che è in corso un progressivo cedimento strutturale al centro della vita attiva del paese. Molto meno chiara è, invece, la strategia del nostro paese su come rispondere a tale crollo. Superato l’impatto congiunturale della pandemia sarà soprattutto questa la principale dinamica negativa da contrastare e controbilanciare per non trovarci trascinati lungo la seconda strada, quella del declino.
Sul lato delle nascite la risposta messa in campo è quella del Family Act. Un pacchetto integrato di misure che, se (ed è d’obbligo sottolineare il “se”) realizzato con tempi, modalità e risorse adeguate, ci può riallineare alle migliori esperienze europee sul fronte delle politiche familiari. Un asse centrale di tale proposta riguarda le politiche di conciliazione, la cui carenza è stata anche uno dei nostri principali freni alla indispensabile crescita dell’occupazione femminile.
Un’ulteriore fondamentale leva di risposta alle trasformazioni demografiche è l’allungamento della vita attiva, che in Italia abbiamo finora interpretato solo sul versante dell’uscita e quasi esclusivamente attraverso vincoli normativi. Non impedire di uscire ma migliorare le condizioni che favoriscono, sia per il lavoratore che per l’azienda, il piacere e l’utilità di rimanere è l’approccio virtuoso da adottare. Coerentemente con ciò abbiamo bisogno di politiche che mettano al centro le scelte consapevoli dei cittadini e la capacità di generare valore in tutte le fasi della vita.
Una lunga permanenza, solida, soddisfacente e produttiva, ha però prima di tutto bisogno di una buona entrata, come ha efficacemente ricordato Riccardo Di Stefano nella sua relazione di apertura del Convegno dei Giovani Imprenditori di Confindustria. Non ci si può accontentare delle pur utili decontribuzioni per l’assunzione degli under 35, servono prima di tutto strumenti e servizi, all’altezza delle economie avanzate, che consentano alle nuove generazioni di entrare nei modi e nei tempi giusti nel mondo del lavoro e rendano effettivo il diritto di imprendere. Sempre più importante è, inoltre, la collaborazione tra generazioni nell’ambiente di lavoro. Esistono aziende in Italia che hanno questo approccio e sono punte di eccellenza nel loro settore, ma le pratiche di Age management sono, in generale, ancora poco sviluppate nel nostro paese.
Oltre alle azioni che possono contenere l’ampliamento degli squilibri demografici, come nascite e saldo migratorio, è necessario favorire ampio accesso e lunga permanenza in condizione attiva, utilizzando nel modo più efficiente la forza lavoro disponibile. Questo significa, di fatto, aumentare occupabilità e produttività, che sono fortemente dipendenti dal capitale umano.
Il “dividendo demografico”, ovvero il contributo positivo alla crescita economica dovuto all’aumento della quota di popolazione in età lavorativa, non va, infatti, considerato solo in termini quantitativi. Come vari studi mostrano, nei paesi in via di sviluppo l’incremento degli abitanti in età attiva non fornisce solida spinta all’economia se non accompagnato da un miglioramento della formazione. Allo stesso modo, nelle società mature avanzate, se la popolazione attiva diminuisce ma aumenta il capitale umano delle nuove generazioni, in modo coerente con i processi di innovazione, si possono mantenere buoni livelli di sviluppo sostenibile.
La spinta alla crescita economica di una popolazione in cui si vive sempre più a lungo, in cui migliorano le condizioni di salute, in cui cresce la quota di chi ha elevata formazione all’interno della forza lavoro (con coorti che entrano nelle varie fasi della vita con istruzione e capacità di uso delle nuove tecnologie via via più elevata), corrisponde a quello che viene indicato come “secondo dividendo demografico”. In Italia tale dividendo è potenzialmente alto rispetto agli altri paesi con analoga evoluzione demografica, perché maggiori sono i margini di potenziale aumento della quota di giovani con elevata istruzione, di nuovi entranti nel mondo del lavoro con solida formazione (anche femminile) negli indirizzi tecnico-scientifici, di lavoratori maturi con competenze avanzate e digitali aggiornate. Ma tutto questo, oltre che di un forte rafforzamento di istruzione e di formazione continua, ha grande bisogno di un solido piano di investimento di risorse pubbliche e private in ricerca e sviluppo. Come ben sappiamo, anche su questo punto i margini sono ampi, dato che la spesa destinata a tale voce è circa un terzo più bassa della media europea. Le stesse opportunità della transizione verde sono legate alla formazione e agli investimenti su ricerca e sviluppo.
Salute e capitale umano sono due capisaldi da difendere nell’emergenza e rendere ancora più solidi nella fase di ripresa resiliente, non solo con risorse adeguate ma anche con progetti integrati e coerenti. Il rischio è altrimenti quello di tempi lunghi per assorbire gli effetti negativi della pandemia, di difficoltà ad aprire una nuova stagione di crescita sostenibile, di peso sempre più gravoso del debito pubblico e degli squilibri demografici. In tal caso ci troveremo tra pochi anni a prendere semplicemente atto che il bivio è alle nostre spalle e che la strada che stiamo percorrendo va solo in discesa e risulta sempre più ripida.