Oltre gli squilibri

La collaborazione tra generazioni rende vincente il Paese

L’ITALIA è uno dei paesi sviluppati che maggiormente hanno lasciato crescere accentuati squilibri generazionali. Questi squilibri costituiscono un rilevante freno allo sviluppo competitivo dell’economia, rendono meno stabile il sistema di welfare pubblico, alimentano diseguaglianze sociali e territoriali. Ma per tornare a crescere in termini di ricchezza economica e di benessere sociale la risposta più che dal conflitto deve arrivare dalla proficua collaborazione tra generazioni, che però deve avere come principale attenzione quello che di nuovo i giovani possono dare anziché – come è spesso avvenuto sinora nel nostro Paese – quello che gli anziani possono conservare.

Le generazioni più mature dovrebbero spostarsi dalla difesa di quanto raggiunto nel passato al mettersi a disposizione per consentire alle nuove generazioni di disporsi in ruoli d’attacco verso il futuro. Solo con questa strategia di base è possibile un gioco di squadra vincente. Gli squilibri da gestire Partiamo dai dati e dai rischi dello La collaborazione tra generazioni rende vincente il Paese squilibrio per poi arrivare alle opportunità della collaborazione tra età e generazioni diverse. Un primo squilibrio da gestire è quello demografico.

La persistente denatalità ha ridotto prima le fasce più giovani (under 25) e sta ora mordendo la fascia giovane-adulta (25-34). Le coorti più consistenti, nate nel periodo del baby boom, hanno oggi attorno ai 50 anni. Questo significa che nei prossimi anni gli squilibri diventeranno sempre più problematici all’interno del sistema produttivo italiano. Avremo sempre meno trentenni e quarantenni, mentre abbonderanno i cinquantenni e sessantenni. Già oggi i trentenni sono un terzo in meno (comprendendo anche l’impatto dell’immigrazione) rispetto ai cinquantenni.

Un secondo squilibrio che pesa sulle nuove generazioni è quello del debito pubblico, che ha a monte un patto generazionale disatteso e che a valle rende più incerto il percorso di sviluppo del Paese. Oltre a farsi carico del debito, i nuovi entranti, strutturalmente più deboli, devono comunque assumersi i costi di coorti anziane sempre più ampie (le quali assorbiranno sempre più risorse per previdenza e spesa sanitaria). Detto in altri termini, le nuove generazioni si trovano con meno condizioni per produrre ricchezza ma con maggiori costi da sostenere.

Questi squilibri si possono gestire e superare solo passando dalla preoccupazione dei rischi legati a vincoli e costi all’investimento sulla capacità di produrre ricchezza e benessere delle nuove generazioni in tutto il loro corso di vita. Che questo non lo stiamo oggi facendo con successo lo mostra non solo il tasso di disoccupazione giovanile, in diminuzione ma che continua ad essere tra i più alti in Europa, ma soprattutto il tasso di Neet (i giovani usciti dal sistema di istruzione ma non entrati nel sistema produttivo). In Italia abbiamo il record negativo di tale indicatore non solo tra gli under 25 ma anche, ancor più, nella cruciale classe 25- 34.

L’incidenza dei Neet tra i giovani-adulti sfiora il 30%. In tale classe demografica gli occupati sono scesi, per effetto della denatalità e dell’aumento dei Neet, da circa 6,3 milioni all’entrata in questo secolo a circa 4 milioni attuali. Il macigno di inattivi trentenni rischia di pesare negativamente sul futuro collettivo più del debito pubblico (per mancato contributo alla crescita e per costo sociale). Tra chi poi ha un lavoro, la condizione è spesso instabile ma soprattutto le retribuzioni sono mediamente basse. I dati dell’ultimo rapporto Adepp (Associazione enti previdenziali privati) mostrano come nel 2016 un libero professionista di età compresa tra i 30 e i 40 anni abbia guadagnato in media circa 20mila euro, contro i 48mila della fascia 50-60 anni. Non meraviglia, di conseguenza, la tendenza crescente dei giovani qualificati a cercare maggiori opportunità all’estero (rallentata nell’ultimo anno come conseguenza di Brexit).

Le opportunità di collaborazione tra generazioni

Squilibri come quelli prodotti nel nostro Paese non si possono superare, tornando a generare crescita, se non mettendo virtuosamente e sinergicamente in campo tutte le forze mobilitabili. Il primo punto è quello della piena valorizzazione del capitale umano delle nuove generazioni. Anche portando però a livelli medi europei l’occupazione giovanile, il rapporto tra popolazione anziana e popolazione attiva rimarrebbe comunque uno dei peggiori nel mondo sviluppato (per la nostra demografia più debole).

Dobbiamo quindi nel contempo valorizzare maggiormente una componente che sarà sempre più abbondante nei prossimi decenni, ovvero gli adulti più maturi (55-64) e i senior (65-74 anni). Diventa quindi strategico aumentare le potenzialità di pieno impiego dei giovani, ma anche favorire un meno anticipato ritiro degli anziani. Fortunatamente questo sta avvenendo non solo per la riduzione delle nascite ma anche per l’aumento della longevità e quindi del miglioramento della salute psico-fisica delle generazioni più mature.

Come raccontato nel libro Il futuro che (non) c’è. Costruire un domani migliore con la demografia (scritto con Sergio Sorgi, Bocconi editore 2016), i paesi e le aziende che saranno in grado di mettere in relazione virtuosa e integrata (di mutuo stimolo, interscambio e supporto) generazioni diverse, avranno molte più possibilità di crescere ed essere competitive. Crescere in un mondo sempre più complesso e in continuo cambiamento richiede la necessità: di acquisire una formazione solida in partenza e un atteggiamento positivo e intraprendente nel costruire il proprio percorso professionale; di mantenere elevate le abilità che possono indebolirsi nel tempo e valorizzare l’arricchimento di esperienze e relazioni sviluppate nel proprio percorso; di cogliere l’opportunità di mutua contaminazione e cooperazione tra persone con sensibilità e competenze diverse; di mettere continuamente in discussione le mappe di lettura della realtà e le modalità di azione in essa per raggiungere i migliori obiettivi all’interno di uno scenario con coordinate in continuo mutamento.

In Italia mancano politiche di age management Senior che rimangono sul posto di lavoro solo come zavorra (sentendosi inadeguati e senza stimoli) e aziende costrette a pagarli ma senza ritorno produttivo, consentiranno magari allo Stato di risparmiare sulla spesa pensionistica, ma rischiano di peggiorare le condizioni di vita delle persone, vincolando al ribasso la competitività delle aziende. Il miglioramento delle possibilità di lavoro a tutte le età, mettendo a frutto le capacità e le competenze in ogni fase della vita, aiuta a crescere di più e meglio. Forzare invece la permanenza al lavoro in età avanzata rischia di creare squilibri nel mercato del lavoro tra giovani e anziani senza produrre crescita e nuove opportunità per tutti.

Lo spostamento in avanti dell’età pensionabile deve quindi essere accompagnato da politiche di age management, che stentano però a decollare nel nostro Paese. È interessante a questo proposito l’iniziativa di Osservatorio senior (www.osservatoriosenior.it) che, assieme a un gruppo di imprese e organizzazioni-pilota, ha sviluppato il progetto “Silver value”. L’obiettivo è quello di “riconoscere e dare visibilità a strategie organizzative e pratiche aziendali che favoriscono una lunga, produttiva e appagante vita attiva, valorizzando capacità e competenze proprie delle varie fasi della vita lavorativa, in un contesto positivo di collaborazione tra dipendenti giovani e maturi”.

Nel concreto tale progetto prevede un’auto-misurazione su base annuale su un set di indicatori, consentendo di verificare la rispondenza delle scelte gestionali e politiche alle buone pratiche in materia di gestione e valorizzazione dei senior e di collaborazione tra generazioni. L’Italia può ancora sperare in un futuro migliore del presente se dimostrerà di essere in grado di mettere in campo e valorizzare le potenzialità che ha, creando opportunità per tutti in un contesto di crescita. Questo va fatto sia con una politica lungimirante che faccia da regia e promozione dall’alto, sia attraverso alleanze e pratiche virtuose dal basso. Solo così possiamo infatti spostare dalla difesa all’attacco la nostra strategia di reazione alle sfide poste dai grandi cambiamenti (non solo demografici) di questo secolo.

Rispondi

  • (will not be published)