L’attenzione verso le nuove generazioni è stata una costante degli scritti e degli interventi pubblici di Mario Draghi come Governatore di Bankitalia e nel periodo successivo, spesso come richiamo rispetto alla scarsa sensibilità sul tema della politica italiana. Con la sua entrata a Palazzo Chigi questa attenzione ha finalmente l’occasione di essere portata, con la sensibilità e le competenze giuste, al centro delle scelte del Paese. Non certo in modo retorico e con l’idea che i giovani siano una componente svantaggiata da soccorrere, ma con la solida consapevolezza che senza la valorizzazione del capitale umano delle nuove generazioni nessuna crescita solida sia possibile, tantomeno nel nostro Paese.
Per non invecchiare male è necessario accompagnare la rivoluzione, quantitativa e qualitativa, nelle fasi più mature della vita con un rafforzamento di quelle più giovani. Se invece ci troviamo a ridurre, più di tutti gli altri paesi, sia la consistenza numerica delle nuove generazioni sia le opportunità del loro ingresso solido nel motore produttivo, la conseguenza non può che essere un indebolimento strutturale della forza lavoro che va inesorabilmente a limitare le possibilità di sviluppo presente e futuro.
I dati sono eloquenti. La popolazione italiana in età lavorativa, tra i 15 e i 64 anni, è pari a poco più di 38 milioni. In termini relativi si tratta del 64 percento dei residenti. Tale valore è rimasto sostanzialmente stabile in passato ma andrà a ridursi considerevolmente nei prossimi decenni, scendendo di quasi dieci punti entro la metà del secolo. Quello che però negli ultimi decenni è cambiata, e molto, è la composizione interna, e ancor più nella forza lavoro che sulla popolazione.
In particolare, se confrontiamo i dati appena pubblicati dall’Istat sull’occupazione, riferiti a dicembre 2020, con quelli di dicembre 2005, si nota come il numero di occupati sia simile, pari a 22,1 milioni circa. Gli under 35 risultano, in tale periodo, però scesi dal 33% al 22% sul totale di chi ha un lavoro, mentre gli over 50 sono saliti da meno del 22% a oltre il 37%. Ma anche la fascia centrale adulta, quella tra i 35 e i 49 anni, ha perso consistenza, arretrando di quasi 5 punti percentuali.
Se si va a vedere il peso sulla popolazione in età attiva, si trova che i 15-34enni sono il 32% e i 50-64enni il 35% (quindi rispettivamente circa 10 punti in più e 2 punti in meno rispetto alla loro incidenza sugli occupati). Se quindi la popolazione italiana è tra le più sbilanciate del pianeta verso le età anziane, il mondo del lavoro ne risulta uno specchio deformato che restituisce un’immagine ancor più invecchiata. Ma questo ritratto deformato più che conseguenza di una sovraesposizione della parte anziana, è l’esito di un forte deficit di capacità nel far emergere e mettere in luce la parte più giovane.
In particolare, molto più che negli altri paesi con cui ci confrontiamo, mancano politiche adeguate sia sulla natalità, sia sulla promozione della transizione scuola-lavoro e la valorizzazione del capitale umano nel sistema produttivo. I dati Eurostat ci dicono che il tasso di occupazione giovanile italiano ha visto allargarsi la distanza rispetto alla media europea da meno 10 punti percentuali nel 2005 a circa 15 nel 2020, mentre il tasso di occupazione in età matura (50-64 anni) l’ha ridotta di 2 punti nello stesso periodo. Se quindi l’Italia è rimasta agganciata al resto d’Europa rispetto al lavoro maturo, ha lasciato invece scivolare sempre più ai margini le nuove generazioni.
La crisi sanitaria ha assestato nel 2020 un ulteriore colpo verso lo sbilanciamento del mondo del lavoro, come confermano i più recenti dati Istat. A fine 2020 il tasso di occupazione degli under 35 risulta diminuito di circa 2 punti percentuali rispetto a fine 2019. L’unica fascia ad aver tenuto, riuscendo anzi anche leggermente ad aumentare, è stata quella degli over 50.
Detto in altro modo, c’è un’Italia over 50 che è cresciuta dal punto di vista demografico, ha visto nel corso di questo secolo ridurre la distanza dagli altri paesi avanzati in termini di presenza sul mercato del lavoro e, nel 2020, si è trovata più protetta rispetto all’impatto della crisi sanitaria sull’occupazione. C’è poi un’Italia under 35 che ha vissuto un percorso del tutto opposto. Oltre, allora, a continuare a favorire la lunga vita attiva – con politiche che consentano al crescente numero di lavoratori over 50 (passati in quindici anni da circa 5 milioni a quasi 9 milioni) di trovare le migliori condizioni nelle aziende per sentirsi realizzati nel lavoro ed essere produttivi – va con la massima urgenza e priorità invertito il percorso fuori rotta a cui sono state abbandonate le nuove generazioni.
Il nuovo Governo deve partire dal riconoscimento che, pur nella loro diversità, né Garanzia giovani e né il Reddito di cittadinanza sono state politiche pubbliche “trasformative”: non in grado di migliorare strutturalmente i percorsi dei giovani e metterli nelle condizioni di farsi soggetti attivi nella crescita del paese. Il Piano Garanzia giovani è stato avviato nel 2014. Probabilmente se non fosse stato realizzato ci troveremmo oggi in condizioni ancora peggiori, ma va constatato che dal suo avvio fino al 2019 non risultava per nulla ridotto il divario di disoccupati e inattivi italiani rispetto alla media europea. Il Reddito di cittadinanza più che attivare i giovani più disagiati sul mercato del lavoro ha affiancato l’assistenza pubblica alla dipendenza passiva dai genitori. Utile per ridurre le condizioni presenti di povertà ma debole come misura di riscatto sociale.
Abbiamo allora bisogno di vere politiche trasformative, che dimostrino di fare la differenza nel promuovere in modo attivo il percorso personale dei giovani, perché i giovani stessi possano poi fare la differenza sul percorso di crescita del Paese. E’ invece finora mancata una seria riflessione critica sugli insoddisfacenti risultati di Garanzia giovani e sui limiti del Reddito di cittadinanza. Senza capire che cosa fin qui non ha funzionato – non solo nel consentire ai giovani di accedere a un posto di lavoro, ma nell’assegnare alle nuove generazioni un ruolo strategico nei processi di sviluppo competitivo – possiamo solo ottenere dal Recovery plan la ripresa di un percorso sbagliato, non certo la costruzione di un modello paese di nuova generazione.