Le donne italiane desiderano avere figli e realizzarsi nel mondo del lavoro non meno delle donne degli altri Paesi europei. Ma è anche vero che nessuno impedisce alle donne italiane di diventare madri e di avere un lavoro remunerato. Perché allora l’Italia presenta la peggiore combinazione in Europa di bassa natalità e bassa occupazione femminile? Uno dei motivi principali è che meno degli altri Paesi mettiamo le donne nella condizione di effettuare con successo la scelta combinata (non solo ciascuna singolarmente) di realizzarsi come madri e nella vita professionale.
A livello personale, la difficoltà nel tenere unite tali due scelte porta a rinunciare ad una dimensione da molte considerata importante della propria realizzazione. A livello familiare, se si hanno figli e si rinuncia al lavoro, aumenta il rischio di povertà economica. Se, in carenza di strumenti adeguati di conciliazione (pubblici e aziendali), si hanno figli ma si continua a lavorare ci si trova con complicazioni organizzative che possono generare sovraccarico, frustrazione, deterioramento del benessere relazionale. A livello di sistema Paese, ci si trova con più squilibri demografici, più debole forza lavoro, di conseguenza con meno crescita economica e meno sostenibilità del sistema di welfare. Sia quindi che si pensi al benessere delle persone e delle famiglie, sia che si pensi a cosa è bene per lo sviluppo sociale ed economico del Paese, lasciare che le politiche di sostegno alla natalità, compresa l’armonizzazione di tale scelta con il lavoro, siano più deboli e marginali rispetto al resto d’Europa è una grave lacuna che da troppo tempo continuiamo ad avere.
Mettere al centro la persona in modo integrato nelle politiche di sostegno alla genitorialità significa che quando si mette in campo una misura di supporto alla scelta di avere figli, ci si chiede anche come implementarla in modo che si integri positivamente con il lavoro e la carriera professionale. Impostazione ben rappresentata dalle politiche familiari francesi. Ma significa anche che quando si mette in campo una misura di sostegno alla partecipazione femminile al mondo del lavoro e di valorizzazione della presenza delle donne nella società e nell’economia, ci si chiede anche come implementarla in modo che si armonizzi positivamente con la presenza di figli. Impostazione ben rappresentata dalle politiche di genere svedesi. L’Italia è attualmente uno dei casi più interessanti, nelle società moderne avanzate, di quanto la carenza di politiche adeguate renda l’avere figli uno svantaggio per la carriera e renda la carriera uno svantaggio per la realizzazione in ambito familiare. Se non vogliamo che sempre più donne si dimettano dal ruolo di madre, avere figli più che associarsi a sacrificio e rinuncia deve poter essere pensato e vissuto come una gioia.
Il desiderio di avere figli deve combinarsi con la felicità di una sua piena realizzazione. Desiderio e felicità portano ad andar oltre, con effetti positivi nel proprio percorso di vita e contaminazione positiva verso l’esterno. Facciamo in modo che le giovani madri e i giovani padri siano felici di avere un figlio, come parte di una sfera di realizzazione più ampia. Proviamo ad immaginare un Paese nel quale al colloquio di lavoro a una giovane donna venga sì chiesto se desidera avere figli, ma non per penalizzarla nell’assunzione, all’opposto: con la finalità di illustrare quello che l’azienda offre a madri e padri in modo che la loro attività sia positivamente integrata, non in contrapposizione, con gli impegni familiari. In una situazione di questo tipo non esiste più un “ostacolo” maternità per le donne, con conseguenti possibilità di carriera e di reddito non diverse rispetto alle donne che non hanno figli e agli uomini. Il dato sulla bassa occupazione femminile e sul divario di genere dei redditi (che ci vede nelle posizioni peggiori in Europa) e quello sulle dimissioni volontarie (recentemente pubblicato dall’Inl-Ispettorato nazionale del lavoro, che risulta addirittura in aumento) ci dicono che non siamo sulla strada giusta.
Ci dicono che oggi in Italia per una donna la scelta più razionale, dal punto di vista economico, è non avere figli. Se poi decide di averli, la scelta più razionale è che lei lasci il lavoro e il marito si concentri ancor più sul lavoro a scapito del tempo con i figli. Ed è qui che l’Italia continua ad essere bloccata, a danno di tutte e tutti. Servono quindi migliori politiche di conciliazione pubbliche e aziendali. Ma servono anche opportunità e qualità di lavoro migliori. Se non migliora la qualità dell’occupazione in generale, saranno soprattutto le componenti più fragili (in particolare le donne con titoli di studio mediobassi) ad avere le condizioni peggiori e quindi a rinunciare a un lavoro non dignitoso o poco pagato quando arriva un figlio. Assieme alle politiche di conciliazione va quindi migliorata la valorizzazione del capitale umano delle nuove generazioni nelle aziende e nelle organizzazioni, comprese quelle medio-piccole. La presenza diffusa di piccole e medie imprese non può però essere un alibi. Dovrebbe piuttosto diventare uno stimolo per sperimentare nuove soluzioni e in particolare per passare da un welfare aziendale ad un welfare comunitario costituito da reti di imprese in stretta collaborazione con il territorio.
Serve, infine, una particolare attenzione all’arrivo del primo figlio. Le difficoltà e le incertezze che gravano sulle nuove generazioni portano a posticipare continuamente la formazione di una propria famiglia, tant’è che l’età in cui si diventa genitori in Italia è la più elevata in Europa. Per gran parte delle donne, come confermano anche i dati dell’Inl, l’inclusione o l’esclusione dal mercato del lavoro dipende dalla capacità di conciliazione proprio a fronte dell’arrivo del primo figlio. Tanto più in un Paese in cui il numero di donne che entrano nella vita adulta è in continua diminuzione, tale cruciale momento di passaggio nella vita personale e familiare non può essere lasciato debole e vulnerabile ma trovare il miglior sostegno possibile.