L’Italia non ha alcuna possibilità di uscire dalla crisi di futuro che la tiene bloccata se non ritrova fiducia in se stessa. Questo è il messaggio principale del Presidente Mattarella nel suo discorso tradizionale di fine anno (che apre ad un nuovo decennio). Una fiducia che prima di tutto deve riguardare i giovani e il ruolo che il Paese affida ad essi, chiedendo e offrendo responsabilità ad ogni livello.
Ciò che maggiormente oggi, infatti, manca all’Italia è il valore che possono fornire le nuove generazioni all’interno dei processi di cambiamento. Senza la loro spinta difficilmente un paese trova la forza di abbandonare le sicurezze del passato per cercare nuove risposte alle sfide del proprio tempo. Senza il valore che le nuove generazioni sono in grado di portare – quando viene ad esse trasmessa adeguata formazione e fiducia – difficilmente il cambiamento diventa miglioramento, diventa costruzione collettiva di un futuro desiderato in cui riconoscersi.
Se l’Italia entrata nella terza decade del XXI secolo appare un paese fermo, con difficoltà a crescere e timoroso verso il futuro, è perché il contributo dei giovani ai processi di cambiamento è diventato negli ultimi decenni sempre più debole. Ci siamo preoccupati molto dell’immigrazione dall’estero, salvo poi scoprire che il vero problema è la perdita di giovani che vanno a cercare altrove opportunità che qui non trovano. Ci siamo preoccupati molto dell’invecchiamento della popolazione, salvo poi accorgerci che il vero problema è il “degiovanimento”, ovvero la carenza inedita e particolarmente accentuata in Italia di giovani.
Un primo indebolimento è proprio quello quantitativo, che sottrae energie nuove dai processi di sviluppo del nostro territorio come conseguenza della persistente natalità e del sempre più ampio saldo negativo di giovani qualificati con il resto del mondo sviluppato. Questo indebolimento quantitativo si è nel tempo sempre più intrecciato negativamente con un indebolimento qualitativo: la presenza delle nuove generazioni nel mondo del lavoro e nella classe dirigente del paese risulta ancor più ridotta rispetto al loro decremento demografico. Il tasso di occupazione nella fascia 15-34 è tra i più bassi in Europa. Nella fascia 30-34 anni la percentuale di chi ha un lavoro continua ad essere circa dieci punti percentuali sotto la media dell’Unione.
Meno giovani, meno presenti nel mondo del lavoro e su posizioni più marginali. I dati dell’ultimo rapporto sulla previdenza privata dell’Adepp, ci dicono che l’incidenza dei professionisti iscritti come contribuenti attivi nella fascia tra i 30 e i 40 anni è scesa da oltre uno su tre a poco più di uno su cinque. L’età media del dirigente pubblico italiano, secondo i dati di una ricerca presentata al Forum 2019 della Pubblica amministrazione, è superiore ai 55 anni e risulta aumentata di due anni rispetto al 2007. Non va molto meglio nel privato. Una ricerca di ManagerItalia mostra come il nostro Paese abbia, complessivamente, una carenza di manager giovani rispetto ai principali paesi avanzati: l’età media europea è attorno ai 45 anni mentre quella italiana è superiore ai 50. Bassa è anche la presenza di giovani docenti nelle scuole e nelle università italiane. Secondo i dati del Report Ocse “Education at a glance 2019”, l’Italia è uno degli stati con maggior quota di professori con più di 50 anni (pari quasi al 60%) e la più bassa di insegnanti under 35.
Che manchi, più in generale, una piena fiducia nei giovani lo evidenzia anche il fatto che l’Italia continua ad essere uno dei paesi con soglie anagrafiche più elevate per accedere alla Camera (25 anni) e al Senato (40 anni). In un sistema bicamerale perfetto questo significa che dalla decisione definitiva sulle leggi di questo paese sono esclusi gli under 40. Le nuove generazioni devono poter produrre la propria miglior spinta alla crescita del paese, ma anche contribuire a dare una direzione ai processi di cambiamento. Il cambiamento è un vento che soffia forte eppure l’Italia sembra ferma e schiacciata in difesa, come una barca con le vele ripiegate. Queste vele da alzare e disporre nel modo migliore per prendere slancio nell’attraversare il resto di questo secolo sono proprio i giovani. Che in loro sia forte la voglia di non rimanere rannicchiati, di aprirsi assieme verso il futuro e orientare le scelte collettive, lo mostrano i coetanei di Greta scesi in piazza per cambiare il destino del pianeta e il movimento delle sardine che si contrappone all’idea di un Paese sempre più rassegnato e rancoroso. Serve allora che il Paese riparta, all’inizio di questo terzo decennio, dalla fiducia verso le nuove generazioni e le chiami ad un ruolo da protagoniste, con un piano ambizioso e credibile che le metta al centro della costruzione di un nuovo modello sociale e di sviluppo.