Perché la persistente bassa natalità è un problema?
Se aumentano le nascite la popolazione italiana torna a crescere (in un mondo già sovraffollato)?
Perché è auspicabile l’obiettivo di 500 mila nascite (ed è effettivamente realizzabile)?
L’immigrazione sarebbe di per sé sufficiente a compensare gli squilibri demografici?
Cosa insegna l’esperienza degli altri paesi europei?
(tempo di lettura 10 minuti)
I. PERCHE’ LA PERSISTENTE BASSA NATALITA’ E’ UN PROBLEMA?
I.1 Quando il tasso di fecondità rimane posizionato attorno ad una media di due figli per donna, la popolazione smette di crescere, o diminuisce lentamente, mantenendo un sostanziale equilibrio tra generazioni. Se invece tale indicatore scende repentinamente e rimane a lungo sensibilmente sotto tale livello, come è il caso dell’Italia, ogni nuova generazione si riduce marcatamente rispetto alle precedenti.
I.2 L’Italia è scesa sotto la media di 2 figli nel 1977. Dal 1984 è sotto 1,5 e non è più tornata sopra tale valore. E’ uno dei paesi al mondo con più persistente bassa fecondità, ovvero che da più lungo tempo presenta una media di figli più vicina ad 1 (che corrisponde al dimezzamento tendenziale da una generazione alla successiva) che a 2 (livello di equilibrio tra generazioni).
I.3 La conseguenza è una struttura per età che va continuamente a modificarsi con squilibri sempre più accentuati tra popolazione giovane che si riduce e popolazione anziana che cresce (per aumento della longevità). L’Italia è stata il primo paese al mondo a vedere il sorpasso degli over 65 sugli under 15 (avvenuto nella prima metà degli anni Novanta). Secondo le stime Ocse è il paese che maggiormente rischia di trovarsi nel 2050 con un rapporto di 1 a 1 tra persone in pensione e lavoratori.
I.4 La persistente denatalità riducendo le nuove generazioni va ad erodere le coorti che via via entrano nel mercato del lavoro (attualmente i 30enni italiani sono circa un terzo in mendo dei 50enni). Si va così ad indebolire progressivamente la componente attiva che produce ricchezza, finanzia e fa funzionare il sistema sociale. Da un lato va a ridursi la capacità di produrre ricchezza e benessere con indebolimento della forza lavoro potenziale, d’altro lato le minori risorse vengono sempre più assorbite dalla crescente popolazione anziana, si riducono, di conseguenza, i margini per gli investimenti verso le generazioni più giovani (in formazione, politiche attive, ricerca e sviluppo), tanto più con l’enorme debito pubblico che ci caratterizza. Ma di fronte ad uno scenario di questo tipo sempre più giovani italiani sceglieranno di sottrarsi agli squilibri che gravano su di essi e comprimono le loro condizioni cercando migliori opportunità in altri paesi. Questo andrà ad accentuare ulteriormente gli squilibri e il processo di declino del paese.
I.5 La denatalità tende ad autoalimentarsi innescando un processo di avvitamento continuo verso il basso: le poche nascite passate riducono la popolazione oggi nell’età in cui si forma una propria famiglia, con conseguenti ancor meno nascite future. Detto in altre parole, a parità di figli per donna diventa più basso il numero di nascite che via via si ottiene, per la riduzione continua delle potenziali madri. Più si aspetta, quindi, più diventa difficile uscire da tale spirale negativa e invertire tale tendenza.
I.6 Una popolazione, a differenza delle singole persone, può sia invecchiare che ringiovanire o rimanere con una struttura ben bilanciata (che corrisponde ad una fecondità attorno alla media di due figli). Il percorso in cui si è inserita l’Italia rischia di essere quello di un invecchiamento irreversibile, nel quale via via che il tempo passa ci si deve rassegnare a far di meno e star peggio rispetto all’anno precedente.
II. SE AUMENTANO LE NASCITE LA POPOLAZIONE ITALIANA TORNA A CRESCERE?
II.1 Dopo decenni di erosione prodotta dal basso (dalla base della piramide demografica) dalla denatalità, la curva della popolazione ha iniziato la virata verso il basso a partire dal 2014. L’Italia ha perso da tempo la capacità di crescita endogena: i decessi hanno cominciato a superare le nascite a partire dalla prima metà degli anni Novanta ma grazie ai flussi migratori la popolazione italiana ha continuato ad aumentare fino a raggiungere 60,3 milioni nel 2014.
Dopo tale data l’immigrazione non è più riuscita a colmare il divario sempre più ampio tra nascite molto basse e decessi in aumento. Avere sempre più popolazione anziana comporta, infatti, anche una sempre più ampia componente di popolazione nelle età in cui più precarie sono le condizioni di salute, il che fa crescere i decessi (anche se nelle singole età i rischi di morte diminuiscono). Già
attualmente gli ottantenni sono più dei nuovi nati.
II.2 Entro il 2050 gli over 65 aumenteranno di quasi altri 5 milioni (rispetto al 2022), ma gli under 65 si ridurranno di una entità doppia (perdita di circa 10 milioni). Un aumento della fecondità che arrivasse, nello scenario più ottimistico tra quelli delineati dall’Istat, ad elevarsi fin oltre 1,8 figli per dona (il livello attuale della Francia, il più alto in Europa) andrebbe a cambiare poco la crescita della popolazione anziana ma consentirebbe agli under 65 di limitare la perdita a poco più di 6 milioni. Quindi la popolazione totale italiana diminuirebbe comunque, ma con struttura per età meno squilibrata a svantaggio delle nuove generazioni e della forza lavoro.
II.3 La questione non è far tornare a crescere la popolazione italiana, che è destinata in ogni caso a diminuire, ma quanto vogliamo che gli squilibri interni tra generazioni vadano ad allargarsi diventando via via insostenibili. Contenere la riduzione della natalità e favorirne una ripresa non è più un obiettivo che può, quindi, invertire la curva declinante della popolazione, ma è cruciale per non rendere ancora più gravi – per le ricadute sociale ed economiche – gli squilibri sulla struttura per età, in particolare nel rapporto tra vecchie e nuove generazioni.
II.4 Sono le condizioni del rapporto tra generazioni e dei meccanismi del rinnovo generazionale che devono poter essere assicurate e funzionare in modo da consentire a chi è anziano di vivere bene e chi è giovane di poter avere le condizioni per partecipare in modo solido ai processi che generano sviluppo e benessere.
III. L’IMMIGRAZIONE SAREBBE DI PER SÉ SUFFICIENTE A COMPENSARE GLI SQUILIBRI DEMOGRAFICI?
III.1 Le tappe della crisi demografica italiana possiamo riassumerle con tre date. La prima è il 1977, quando il numero medio di figli per donna è sceso sotto il livello di equilibrio generazionale (pari a 2). La seconda è il 2006, quando il saldo naturale è stato per l’ultima volta positivo: dopo tale anno le nascite si sono posizionate sistematicamente sotto i decessi (con un divario in continuo allargamento nel tempo). La terza è il 2014, quando la popolazione italiana è iniziata a diminuire, con flussi di immigrazione non più in grado di compensare il saldo naturale negativo.
III.2 La componente di cittadinanza italiana della popolazione in età attiva ha iniziato a ridursi sensibilmente già con l’entrata nel XXI secolo. È stata però compensata dal rilevante contributo dell’immigrazione che ha consentito alla percentuale di popolazione tra i 15 e i 64 di rimanere sui livelli degli anni Settanta e Ottanta. Ma l’immigrazione, per quanto rilevante, nel prossimo futuro non sarà più sufficiente a contrastare la progressiva riduzione: “I flussi migratori (previsti) potranno limitare il calo della popolazione complessiva, della popolazione in età lavorativa e dei tassi di occupazione, ma non saranno in grado di invertire il segno negativo del complessivo contributo demografico”.
III.3 Lo scenario istat più favorevole rispetto alle immigrazioni prevede che i flussi dall’estero salgano e si stabilizzino su valori oltre i 350 mila annui (Istat, base 2021). Se nel contempo anche le nascite andassero ad aumentare portandosi attorno 500 mila (nel 2022 si è scesi sotto 400 mila), la fascia 25-44 anni (quella in cui le immigrazioni incidono di più e anche quella che alimenta maggiormente la forza lavoro) andrebbe a ridursi da 18,1 a 15,9 milioni. Questo significa che tali obiettivi (in circa 10 anni portare i flussi oltre 350 mila e le nascite oltre 500 mila) vanno realizzati assieme e in modo integrato. Andrebbero, semmai, ulteriormente rafforzati, non considerati uno in alternativa all’altro.
II.4 La gestione dell’immigrazione va considerata parte di un’azione sistemica di rafforzamento strutturale del paese, con misure che aiutino tutti gli ingranaggi ad integrarsi positivamente e girare nella direzione giusta. Se da un lato, l’immigrazione è un fattore rilevante per rispondere agli squilibri demografici e ai fabbisogni delle imprese in molti settori, d’altro lato non è possibile un’attrazione di qualità senza sviluppo economico e possibilità di integrazione lavorativa e sociale. Inoltre, sia lo sviluppo economico che l’integrazione lavorativa e sociale degli immigrati rimangono deboli se non migliorano contestualmente anche le prospettive di occupazione giovanile e femminile in generale. Ciò che oggi non funziona nella transizione scuola-lavoro, penalizza anche (spesso ancor più) i giovani stranieri. Analogamente le carenze degli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia, vincolano al ribasso la partecipazione femminile al mercato del lavoro sia delle donne autoctone che delle immigrate. Solo così si può alimentare una crescita che allarga la torta e apre nuove opportunità per tutti, in caso contrario si scivola verso un declino caratterizzato da poco lavoro e di bassa qualità, che più che ridurre la domanda di manodopera esterna porterà ad accentuare la fuga dei giovani italiani verso l’estero.
IV. PERCHE’ E’ AUSPICABILE L’OBIETTIVO DI 500 MILA NASCITE (ED E’ EFFETTIVAMENTE REALIZZABILE)?
IV.1 Le nascite in Italia sono scese da oltre 550 mila nel 2010 a 420 mila nel 2019. La pandemia ha contribuito poi a farle scendere ulteriormente sotto 400 mila. Secondo lo scenario mediano dell’Istat (base 2021), pur contemplando un aumento del numero medio di figli per donna, nei prossimi anni le nascite a malapena tornerebbero a 420 mila per poi ridursi continuamente senza più invertire la tendenza negativa. L’aumento della fecondità non sarebbe in questo caso in grado di bilanciare la riduzione della popolazione in età riproduttiva (le potenziali madri). Nel percorso, invece, più ottimistico tra quelli delineati dall’Istat, le nascite tornerebbero a posizionarsi sopra 500 mila. Un obiettivo, quindi, ancora possibile ma solo se l’inversione inizia subito e viene sostenuta in modo solido. In corrispondenza, da 1,25 del 2021, il numero medio di figli per donna dovrebbe salire fino a 1,65 nel 2037 (un livello comunque sotto la Francia, attualmente attorno a 1,8). Esperienze di aumento di entità simile sono quelle della Germania passata da 1,33 del 2006 a 1,6 nel 2016 o, ancor meglio, della Svezia passata da circa 1,5 nel 1999 a oltre 1,9 nel 2009. Difficile, quindi, ma non impossibile. E’, in ogni caso, l’unico percorso che ci rimane per non far scattare la trappola del declino continuo delle nascite (con conseguenti squilibri tra vecchie e nuove generazioni via via sempre peggiori).
IV.2 L’obiettivo di quota 500 mila nascite è strategico non solo perché aiuta a non rassegnarsi ad una trappola demografica che genera squilibri irreversibili, ma anche perché può essere ottenuto solo combinando politiche familiari con condizioni che portano al rialzo anche occupazione giovanile, partecipazione femminile al mercato del lavoro, immigrazione di qualità (in grado di rinsaldare la forza lavoro nel breve periodo). La natalità, infatti, non può aumentare se non migliora tutta la transizione scuola-lavoro e se non aumentano le opportunità di valorizzazione del capitale umano dei giovani nel mondo del lavoro. D’altro canto, i giovani che conquistano nei tempi
e modi adeguati l’autonomia e formano una propria famiglia tendono anche ad essere più impegnati e responsabilizzati verso un ruolo sociale attivo. Politiche a supporto di tali scelte hanno quindi ricadute sia sulla vitalità demografica che sul dinamismo sociale ed economico. Allo stesso modo la natalità non può aumentare in modo solido se rimane bassa l’occupazione femminile e viceversa. Le politiche che armonizzano tempi di lavoro e responsabilità familiari consentono a chi ha figli di poter avere un impiego e a chi ha un impiego di non rinunciare ad avere figli.
IV.3 Aumento della nascite, dell’occupazione giovanile e della partecipazione femminile, assieme ad una immigrazione con possibilità di adeguata integrazione, convergono in modo coerente a portare l’Italia verso lo scenario più alto tra quelli previsti dall’Istat, rafforzando le condizioni di sviluppo inclusivo e sostenibile.Viceversa, la depressione ulteriore delle nascite (scenario più basso) si associa anche a persistenti difficoltà dei giovani a formare una propria famiglia, a bassa conciliazione delle coppie tra famiglia e lavoro, a rischio di povertà della famiglie con figli. L’andamento delle nascite va considerato, quindi, l’indicatore più informativo sulle prospettive di sviluppo e benessere dell’Italia nei prossimi anni, condizionando anche gli scenari di medio e lungo termine.
IV.4 Cruciali saranno, in particolare, i prossimi cinque anni. Per due motivi. Il primo è l’opportunità di spinta nella giusta direzione che proviene dalle risorse di Next Generation Eu. Entro il 2026 sapremo come i progetti finanziati saranno realizzati e l’efficacia che avranno. Il secondo è legato all’evoluzione della struttura demografica. Più il tempo passa e più difficile diventa invertire la tendenza delle nascite perché va ad erodersi irreversibilmente la popolazione in età riproduttiva.
IV.5 Le proiezioni che l’Istat pubblicherà nel 2027 – se in questi cinque anni le nascite continuassero ad essere in sofferenza – andranno a decretare in modo definitivo l’impossibilità per i decenni successivi di una ripresa della vitalità demografica. Lo scenario migliore diventerebbe quello mediano attuale, ovvero un aumento del numero medio di figli per donna non in grado di compensare il trascinamento verso il basso delle nascite dovuto alla riduzione delle potenziali
madri.
IV.6 Le previsioni demografiche non sono statiche, se si va verso lo scenario più alto vengono ulteriormente viste al rialzo, e si va verso quello più basso vengono riviste ancor più al ribasso. Ma la differenza tra condanna alla riduzione continua delle nascite e tenere, invece, aperta la possibilità di inversione della tendenza si gioca in questi anni.
IV.7 Lo spazio strategico della politica è quello dell’intervento sulle condizioni che consentono di ridurre il divario tra numero di figli desiderato e quello effettivamente realizzato. Avere un figlio è una scelta libera, come quella di non averne. Non si tratta di convincere chi non vuole figli ad averne, ma di mettere chi desidera averli nella condizione di poter realizzare tale scelta e di poter far crescere i figli in un contesto favorevole al loro benessere e allo sviluppo delle loro potenzialità. Non agire su tale spazio strategico con politiche efficaci indebolisce le scelte personali, in particolare quelle, come avere figli, che implicano maggiori costi economici e di organizzazione, maggiori vincoli e responsabilizzazione.
V. COSA INSEGNA L’ESPERIENZA DEGLI ALTRI PAESI EUROPEI?
V.1 La Francia è il caso forse più interessante di economia matura avanzata che dimostra che si possono mantenere livelli di fecondità che non scendono troppo sotto la soglia di equilibrio generazionale (grazie a politiche stabili, integrate e continue nel tempo).
V.2 La Germania dimostra che è possibile, dopo essere scesi su valori molto bassi (sotto quelli italiani nel primo decennio di questo secolo), risalire sopra la media europea mettendo le politiche familiari al centro delle scelte strategiche di sviluppo del paese. C’è riuscita con un piano di solido investimento che ha combinato un consistente sostegno economico alle coppie con figli e un deciso
rafforzamento dei servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia.
V.3 L’aiuto economico è la leva con effetto più immediato, di breve periodo, per risollevare le nascite, perché consente di sbloccare, soprattutto dopo una crisi e in condizioni di incertezza, una scelta lasciata in sospeso e continuamente rinviata. Ma perché a tale impulso si agganci un effettivo processo di inversione di tendenza che continua nel medio-lungo periodo serve un solido miglioramento dei servizi per l’infanzia e degli strumenti di conciliazione, con copertura diffusa sul territorio ed effettiva accessibilità. L’Italia è finora intervenuta in modo debole e con ritardi su entrambi tali fronti.
V.4 L’unico possibile percorso al rialzo richiede, in generale, di allineare le politiche familiari italiane al meglio delle esperienze europee sui vari fronti integrati. Rispetto al sostegno economico, la Germania riconosce oltre 200 euro mensili per ciascun figlio, mentre l’assegno unico italiano, nella parte universale, prevedeva inizialmente 50 euro. Relativamente ai nidi, Svezia e Francia hanno una copertura nella fascia 0-2 anni superiore al 50%, mentre l’Italia è al 27%, con forte disomogeneità sul territorio. In tema di congedi il caso più interessante è la Spagna che recentemente ha portato a 16 settimane quello di paternità,equiparandolo a quello di maternità, con le prime 6 settimane dalla nascita del figlio di congedo condiviso tra i due genitori.
V.5 L’esperienza dei vari paesi europei suggerisce, prima di tutto, che l’attenzione deve essere continua e che le misure vanno costantemente adattate alle trasformazioni delle condizioni di contesto e delle aspettative. Per questo motivo le politiche familiari e per le nuove generazioni devono essere integrate e messe al centro delle politiche di sviluppo del paese, ma anche continuamente monitorate e valutate nel loro impatto rispetto agli obiettivi attesi.
PER APPROFONDIMENTI
Rosina A. (2021), Crisi demografica. Politiche per un paese che ha smesso di
crescere, Vita e Pensiero, Milano.
Rosina A., Impicciatore, R. (2022), Storia demografica d’Italia, Carocci editore,
Roma.
“Un figlio nel XXI secolo tra scelta individuale e valore collettivo”, TEDxMilano 2022