Ci troviamo nel primo tratto di un lungo, inedito, percorso di declino della popolazione italiana che caratterizzerà tutto il XXI secolo. Secondo le previsioni delle Nazioni Unite entro il 2100 potremmo trovarci con meno di 40 milioni di abitanti (circa un terzo in meno della popolazione attuale). Le proiezioni Istat appena pubblicate hanno come orizzonte il 2080 e in tale data ci troveremo con circa 46 milioni di abitanti secondo lo scenario mediano e 52,8 milioni in quello più ottimistico. Tutto questo non si produrrà certo senza conseguenze sul versante economico e sociale.
I dati certificano, di fatto, il superamento del punto di non ritorno rispetto al declino demografico. Di fronte a queste prospettive è bene aver chiaro qual è la posta in gioco. Non è tanto il numero assoluto della popolazione, ma l’evoluzione della composizione interna ad indebolire la possibilità di generare sviluppo e garantire benessere sociale nei prossimi anni e decenni. La popolazione diminuisce dal basso, non certo in modo proporzionale a tutte le età. Da un lato la longevità va ad aumentare la popolazione al vertice della piramide demografica (l’aspettativa di vita femminile nel 2080 arriverebbe vicina ai 90 anni), d’altro lato la bassa natalità va a sottrarre via via popolazione alla base (secondo lo scenario mediano non si tornerebbe sopra 1,4 entro il 2050). Il permanere del numero medio di figli molto sotto il livello di due, porta ogni nuova generazione ad essere più ridotta rispetto a quella precedente. Questo va ad alimentare e rendere sempre più gravi gli squilibri tra popolazione anziana e popolazione in età lavorativa.
Ad inizio del XXI secolo la fascia di età più consistente era quella dei trentenni e dei quarantenni, oggi è quella dei cinquantenni. Le dinamiche in corso sono tali che, secondo le previsioni, entreremo nella seconda metà di questo secolo con lo scettro della fascia più popolosa che passerà agli ottantenni. Questo non perché in Italia abbiamo una longevità maggiore rispetto agli altri paesi maturi avanzati, ma perché maggiormente da noi andrà a ridursi la popolazione al centro della vita attiva.
Il livello di incertezza che porta alla differenza tra scenario alto e basso (che corrisponde tecnicamente ad un intervallo di confidenza del 90%) ci fornisce utili indicazioni sui margini sui quali possiamo strategicamente ancora agire. I dati delle proiezioni ci dicono, allora, che non solo lo scenario basso (quello più sfavorevole) ma anche lo scenario mediano (quello usualmente preso come riferimento per le scelte di programmazione) ci condanna a squilibri insostenibili. Quantomeno ci pone in condizioni di accentuato svantaggio rispetto ai paesi con cui ci confrontiamo. In particolare, nello scenario mediano, si contempla un aumento della fecondità da 1,24 del 2022 a un modestissimo 1,46 nel 2080 e ingressi migratori netti che si stabilizzano attorno a 165 mila annui.
Nello scenario più favorevole (alto), invece, si arriverebbe a un incoraggiante valore di circa 1,6 figli in media entro il 2050 e a 1,85 nel 2080. Ma, aggiungiamo noi, è possibile contemplare anche ipotesi più ottimistiche, con fecondità che già entro il 2050 si avvicini ai livelli oggi presentati dalla Francia, oltre a flussi migratori superiori a 300 mila. Con questi dati lo scenario alto non farebbe certo tornare la popolazione a crescere e nemmeno eviterebbe che diminuisca la popolazione in età attiva, ma aiuterebbe a rendere meno svantaggiosi gli squilibri quantitativi e metterebbe nelle condizioni di poter sostenere sviluppo economico e sociale valorizzando qualitativamente il capitale umano, soprattutto potenziando occupazione giovanile, femminile e produttività (in combinazione con un uso virtuoso delle nuove tecnologie).
E’ bene, quindi, abbandonare il riferimento allo scenario mediano – che in modo inerziale deriva dai limiti delle politiche passate nell’accompagnare le trasformazioni demografiche – e puntare al meglio di ciò che possiamo ottenere nel percorso futuro all’interno dei margini ancora possibili.