Se, fortunatamente, molto limitati sono i gruppi che auspicano l’estinzione della nostra specie per salvare la Terra, più diffusa è l’idea che avere figli sia una scelta egoistica che mette a repentaglio il rapporto tra popolazione, risorse e ambiente. Si tratta di un tema che ha vissuto in passato momenti di confronto molto acceso, sotto l’influsso delle tesi neomalthusiane, e che in modo ricorrente torna a presentarsi.
In questi tempi di benvenuta forte sensibilità verso il cambiamento climatico ecco riemergere la convinzione che si debba “buttar via il bambino con l’acqua sporca”, ovvero che il miglior contributo per ridurre l’inquinamento sia evitare alle nuove generazioni di nascere. Ma con la stessa logica si può, magari, pensare di ridurre anche la disoccupazione giovanile, le stragi del sabato sera, il bullismo nelle scuole, e così via.
Quello che spiazza di questa tesi è l’estrema semplificazione di un tema complesso, che va a braccetto con quella di chi pensa che l’immigrazione sia di per sé la soluzione alla denatalità, o chi, al contrario, è convinto che ogni paese possa chiudersi a riccio verso l’esterno e le grandi trasformazioni di questo secolo. C’è una brutta notizia per costoro: il mondo è più vario e articolato rispetto a soluzioni che derivano da un semplice “no”. C’è però anche una bella notizia: un mondo migliore è possibile se potenziamo gli strumenti per gestire la complessità e l’impegno individuale e collettivo nel cercare soluzioni comuni che arricchiscono di vita buona il nostro pianeta.
Proviamo, allora, a proporre alcune evidenze che fanno ritenere malriposta la convinzione che il peggioramento degli squilibri demografici, derivanti dalla persistente bassa natalità, equivalga ad un miglioramento del rapporto tra Uomo e pianeta.
In primo luogo, la questione dell’eccesso della crescita demografica non è nuova nel dibattito pubblico. Il libro “Population bomb” di Paul R. Ehrlich è del 1968. Allora il numero degli abitanti della Terra sembrava effettivamente crescere in modo accelerato. Oggi invece la popolazione è in fase di rallentamento, con prospettiva di stabilizzazione nel corso della seconda metà di questo secolo. A spingere la crescita è soprattutto l’Africa, mentre gran parte del resto del mondo si trova con una fecondità inferiore ai due figli per donna, quindi insufficiente ad alimentare ulteriore crescita demografica. La questione che questo secolo lascerà in eredità a quello successivo sarà quello di come gestire il declino della popolazione e le sue conseguenze.
In secondo luogo, già oggi possiamo vedere in modo crescente in aree montale o decentrate l’effetto dello spopolamento con la presenza di soli anziani. Lo scenario a cui vanno incontro è quello di aree abbandonate, con meno possibilità di cura del territorio e sempre più inospitali. Chi vive in tali aree e chi le amministra tocca con mano l’importanza di contrastare il declino e mettere le condizioni di un adeguato rinnovo generazionale a favore di un miglior equilibrio tra presenza umana e territorio.
In terzo luogo, non va considerato solo l’ammontare totale, ma anche la struttura per età. La riduzione delle nascite non comporta, infatti, una riduzione proporzionale in tutte le età ma solo di quelle più giovani. Se siamo in cento e vogliamo diventare 75, l’unica possibilità è togliere 25 dai nuovi nati. Ma questo più che ridurre la popolazione determina uno squilibrio strutturale con conseguenti costi da affrontare. L’Italia è un caso evidente di come la natalità troppo bassa stia riducendo la presenza di giovani e accentuando l’invecchiamento della popolazione. Questo ha varie conseguenze negative che si inaspriscono nel tempo: meno sostenibilità del sistema sociale, meno risorse per investimento sulla formazione, meno innovazione e quindi anche meno soluzioni per un uso più efficiente delle risorse, meno peso elettorale per le nuove generazioni quindi anche meno forza per scelte collettive che inglobino le loro istanze e sensibilità. In paesi che vedono questi squilibri crescere i giovani tendono a spostarsi altrove per cercare migliori opportunità di occupazione, contribuendo allo sviluppo sostenibile, al dinamismo sociale e alla vivacità culturale di quei contesti. Va considerato che la persistenza della natalità su valori bassi riduce progressivamente anche le potenziali madri, si entra quindi in una spirale negativa in cui la denatalità passata accentua la denatalità futura e alimenta ulteriormente gli squilibri.
In quarto luogo, i flussi migratori – pur indispensabili se con capacità di offrire effettiva inclusione – non sono di per sé sufficienti per rispondere agli squilibri demografici prodotti da nascite troppo basse. Nonostante la consistente immigrazione sperimentata dall’Italia tra la fine del secolo scorso e i primi decenni dell’attuale (concentrata soprattutto nelle età giovanili), il nostro paese continua a presentare uno dei più marcati squilibri tra popolazione lavorativa e matura. Siamo già il primo paese in Europa che ha visto le nuove nascite (compresi i nati da donne immigrate) scivolare sotto il numero degli ottantenni. Inoltre, guardando all’interno della fascia centrale lavorativa, considerando anche i cittadini stranieri, i trentenni si sono ridotti a circa un terzo in meno rispetto agli attuali cinquantenni. Anche tenendo conto di una continua immigrazione nei prossimi decenni, secondo le previsioni Istat, tali squilibri andranno ancor più ad accentuarsi. In particolare, entro il 2050 – adottando l’ipotesi più alta rispetto ai flussi di entrata – gli over 65 aumenteranno di circa 5 milioni mentre la popolazione in età lavorativa si ridurrà ulteriormente di quasi 4 milioni.
Considerando quindi le dinamiche della popolazione italiana – già in declino e con squilibri che vanno sempre più ad accentuarsi – un aumento della natalità non consentirebbe comunque alla demografia del nostro paese di tornare a crescere, ma quantomeno renderebbe, in prospettiva, meno drammatico il rapporto tra generazioni attive e anziane a cui è legata la sostenibilità del sistema sociale.
Insomma, non esistono soluzioni semplici. Serve la capacità di leggere assieme, in modo integrato, la sfida posta dalle quattro “i” da cui dipenderà sempre più la qualità della vita delle generazioni future: Invecchiamento della popolazione, Immigrazione, Innovazione tecnologica, Impatto ambientale. La complessità di tali trasformazioni richiede un aumento dello sforzo individuale e collettivo a capire il mondo in cui viviamo ed agire per migliorarlo. Soprattutto serve un modello sociale ed economico diverso rispetto a quello basato sulla quantità di produzione e consumo. A tale cambiamento le nuove generazioni possono contribuire da protagoniste: sul lato dei consumi, con acquisti più attenti e premiando prodotti e servizi più sostenibili; sul lato della produzione, diventando soggetti attivi dell’economia circolare e della rivoluzione green; oltre che con il loro voto e con l’impegno politico. Più giovani ci saranno a dar forza a tale cambiamento e meno si potrà essere pessimisti sul futuro del pianeta.