L’Italia non è più quella di una volta. Non lo è più perché dal 2014 la popolazione è entrata in una fase di progressiva riduzione. Non lo è più perché dall’inizio di questo decennio gli anziani (65enni e più) hanno definitivamente superato i giovani (under 25). Non lo è più perché, oltre al declino demografico e all’invecchiamento, ha preso avvio, con effetti che diventeranno sempre più evidenti nei prossimi anni, un processo di indebolimento della popolazione in età attiva.
I dati presentati in queste pagine anticipano, su scala territoriale, cambiamenti strutturali che vivremo nel decennio in corso. Più che il futuro riguardano il presente prossimo: non quello che saremo ma quello che già stiamo diventando.
Tre sono le principali indicazioni che ne possiamo trarne. La prima è la conferma di ciò che accomuna marcatamente tutto il Paese da tempo, ben riscontrabile ai due estremi delle età della vita. In tutta la penisola le maggiori variazioni positive si trovano nelle età più avanzate, mentre la diminuzione più intensa riguarda gli under 15. Nulla di nuovo su questo ma la necessità di ribadire l’importanza di rafforzare, in particolare, sia i servizi per l’infanzia che per la non autosufficienza. Questi servizi devono poter migliorare le condizioni di benessere di bambini e anziani ma sono anche indispensabili per poter armonizzare tempi di vita e di lavoro di chi si trova al centro della vita attiva.
La seconda indicazione riguarda proprio la fascia centrale attiva, quella tra i 30 e i 64 anni, il cui indebolimento è la vera novità della nuova fase in cui è entrata l’Italia. All’interno del quadro inedito di riduzione della popolazione in età lavorativa, che tutto il paese si trova ad affrontare, esistono però differenze territoriali rilevanti. I dati più negativi sono concentrati nel Meridione, mentre una maggiore capacità di contenere gli squilibri emerge in alcune regioni del Nord e alcune aree metropolitane. Su queste differenze pesano due dinamiche demografiche: l’andamento della natalità e i flussi migratori. Negli ultimi decenni le regioni del Sud hanno subito un crollo più accentuato delle nascite rispetto al dato nazionale e meno beneficiato dell’aumento dei residenti stranieri. Anche i movimenti migratori interni sono andati a svantaggio di tale parte del Paese. Viceversa le grandi città del Nord sono state maggiormente favorite sia dai flussi interni che dall’estero. Inoltre, prima dell’impatto della Grande recessione del 2008-13 l’andamento della natalità è stato positivo in molte regioni centrosettentrionali, in particolare in Emilia-Romagna e Lombardia.
Il terzo messaggio lo ricaviamo dai dati della fascia 15-29: quella che maggiormente enfatizza le differenze sul territorio italiano mostrando segni sia positivi che negativi. E’, infatti, qui che emergono maggiormente le dinamiche differenziate tra Sud e Nord. Differenze che implicitamente forniscono indicazioni su come rispondere all’indebolimento della popolazione in età lavorativa. Un crollo più contenuto si ottiene quando meglio si combinano le condizioni che favoriscono una ripresa delle nascite e un rafforzamento dei flussi d’ingresso dall’estero. Ma queste condizioni hanno bisogno di inserirsi in un processo più ampio di sviluppo del territorio in cui crescono le opportunità per le nuove generazioni, la qualità dei servizi di welfare rivolti a tutti e la conciliazione tra famiglia e lavoro. Un basso investimento oggi su questi fronti va a vincolare domani ulteriormente verso il basso sia la natalità che l’attrattività, aggravando così ulteriormente squilibri che rischiano di diventare insanabili.
Per dare risposte solide a queste sfide – che oramai non interessano più un futuro lontano ma il presente prossimo del paese – l’Italia ha bisogno di una buona politica con visione lungimirante, sia a livello nazionale che nelle amministrazioni locali. Se invece tale sguardo è continuamente distolto dalla cronaca – con attenzione prevalente al consenso spicciolo da ottenere alle prossime elezioni – la conseguenza sarà la cronicizzazione diffusa delle dinamiche demografiche negative con costi collettivi sempre più difficili da sostenere.