L’Italia è stata, verso la fine del secolo scorso, il primo Paese al mondo a vedere gli under 15 inabissarsi sotto gli ultra 65enni. La conquista di tale primato non si deve alla longevità, che viaggia su livelli comparabili ad altre economie avanzate, ma alla più accentuata riduzione delle nascite.
Dopo la recessione del 2008-2013 il quadro si è ancor più aggravato. In valore assoluto le nascite sono passate da oltre 560 mila nel 2010 a 404 mila nel 2020. L’Istat riteneva altamente improbabile precipitare così in basso. Nelle previsioni pubblicate nel 2011 si trova scritto che, considerate le ipotesi più plausibili, «le nascite non scenderebbero mai sotto la soglia delle 500 mila unità».
Le dinamiche recenti, prima dell’impatto della pandemia, sono state molto più negative delle attese, facendo entrare la popolazione italiana verso un percorso di progressivo declino già a partire dal 2015. Il saldo naturale negativo, ovvero l’eccedenza di decessi sulle nascite, è oramai tale che nemmeno più l’immigrazione è sufficiente a compensarlo.
Dal punto di vista demografico il declino è quindi diventato irreversibile. Ma se il numero medio di figli per donna continuerà a rimanere molto basso (pari a 1,24 nel 2020, saldamente in fondo alla classifica europea), andranno ad ampliarsi sempre di più gli squilibri strutturali interni. Gli over 65, attualmente circa 14 milioni, sono destinati a salire sopra i 19 milioni entro la metà di questo secolo. Ciò che più complica, però, il percorso dell’Italia rispetto al resto d’Europa sono i meccanismi di indebolimento delle generazioni più giovani. Oltre a presentare valori di fecondità tra i più bassi, la persistente denatalità passata va a ridurre maggiormente in Italia il numero di donne al centro della vita riproduttiva. La conseguenza è un accentuato avvitamento dei nuovi nati verso il basso.
Gli effetti di tali squilibri sono già oggi chiaramente evidenti. La fascia di età tra i 45 e i 54 anni conta circa 9,5 milioni di residenti. Si scende attorno ai 7,5 milioni nella classe 35-44 e a meno di 6,5 in quella 25-34. Via via, quindi, che i trentenni diventeranno prima quarantenni e poi cinquantenni si andrà a ridurre di quasi 1 su 3 la popolazione in età lavorativa. Mantenere bassa la natalità significa lasciare che questi squilibri si allarghino ulteriormente, con le conseguenze sociali ed economiche che portano con sé. Per farsene un’idea, basti pensare a com’era l’Italia del 2019 e immaginare di aggiungere cinque milioni di anziani e togliere altrettante persone nelle età più produttive. Sarebbe stato un Paese in maggiore o minore condizione di crescere e garantire la sostenibilità del suo sistema di welfare? E come avrebbe affrontato la pandemia? Questo è lo scenario che andrà a realizzarsi nel prossimo futuro se nulla cambierà rispetto al percorso sin qui osservato. Secondo le stime dell’ OECD pubblicate prima della pandemia, l’Italia è tra i Paesi sviluppati che più rischiano di trovarsi a metà di questo secolo con un rapporto uno a uno tra lavoratori e pensionati, uno scenario difficilmente sostenibile dal punto di vista sociale ed economico.
Il riconoscimento che l’Italia si trova in questa situazione è molto debole nel Piano nazionale di ripresa e resilienza ( PNRR ), il documento strategico che pone le sfide e le priorità per il rilancio del Paese oltre la discontinuità della pandemia. Vi si trova l’esplicito riferimento agli squilibri economici, sociali e ambientali, ma non appare mai l’espressione “squilibri demografici”. Ci sono solo alcuni occasionali e generici passaggi che fanno riferimento alle tendenze demografiche e c’è poi un rinvio al Family act. La conseguenza è che il PNRR in sé non si assume l’impegno di valutare come le misure proposte saranno in grado di agire sulle cause degli squilibri demografici e di monitorare la loro azione in tale direzione (ad esempio sull’impatto sull’età media al primo figlio e sul numero medio di figli per donna). Ci si deve accontentare dell’auspicio che indirettamente sortiscano anche tale effetto.
Una delle misure più rilevanti contenute nel PNRR è quella sui servizi per l’infanzia. Come messo però in luce, tra gli altri, dalla rete EducAzioni, lo stanziamento, pur rilevante, non è sufficiente per raggiungere una copertura del 33% (obiettivo che l’Italia avrebbe dovuto raggiungere nel 2010) e di garantire che ciò avvenga su tutto il territorio nazionale. Riguardo al Family act, va riconosciuto che si tratta di un sistema integrato di misure che potenzialmente possono far fare un salto di qualità alle politiche familiari italiane. Il primo passo è l’assegno unico universale per i figli, su cui pesa però l’incertezza dei tempi di pieno avvio e l’effettiva incidenza sul ceto medio.
Il momento è grave. C’è bisogno di scelte chiare sulle priorità e di politiche coraggiose, oltre che lungimiranti. Sarà in grado l’Italia di mettere solide basi per una nuova fase di sviluppo dopo la pandemia? La risposta più chiara arriverà dalle dinamiche della natalità dal 2022 in poi. È tale indicatore, infatti, il segnale più sensibile della fiducia che un Paese ha nel proprio futuro.