Fare politica per molti significa conquistare posizioni di prestigio e potere, per altri occuparsi della città e del suo funzionamento. Le due cose non si escludono e nella maggior parte dei politici questi due diversi aspetti convivono in varia misura. I bravi politici non sono molti, come non sono molti quelli davvero pessimi. Ampia è invece la presenza di mediocri, compresi molti giovani impreparati precipitati nella politica da chissà dove. Uno dei nostri problemi è la grande proliferazione di questa categoria. Perché ne abbiamo così tanti? La risposta è semplice: perché chi li vota è spesso più mediocre di loro. C’è in realtà un’altra risposta meno severa con noi stessi: perché gli italiani sono così tanto occupati a far tornare i conti in un paese malgovernato che non hanno tempo materiale di informarsi attentamente e di valutare come operano i decisori pubblici. Abbiamo certamente una vita molto più complicata, ad esempio, degli svizzeri. Eppure non siamo peggiori di loro, siamo semplicemente collettivamente meno intelligenti. Può accadere che ciascuno di noi valga quanto o più di uno svizzero, ma tutti assieme valiamo certamente di meno. A parità di impegno individuale miglioriamo di meno il benessere collettivo, anche perché da noi ottiene di più non tanto chi produce maggiore utilità sociale ma chi riesce a fare la voce più grossa. Ciascuno ripiegato sui propri problemi quotidiani abbiamo smesso di guardare con attenzione i mutamenti della realtà attorno a noi. La conseguenza è che siamo diventati bravi a difenderci ma sempre meno in grado di capire da dove arrivano i problemi e come risolverli assieme.
Possiamo uscire da questa condizione e intraprendere un credibile processo di cambiamento solo tornando a fare buona politica e coinvolgendo meglio le nuove generazioni. I giovani, da un lato, dovrebbero essere i più interessati a migliorare la politica, perché sono i più penalizzati dal suo malfunzionamento, ma, dall’altro e per gli stessi motivi, sono anche i più diffidenti verso partiti e istituzioni. Inoltre, ancor più rispetto al resto della popolazione adulta, i loro pensieri e le loro energie sono in larga misura concentrati a superare gli intralci nella costruzione del proprio percorso lavorativo e di vita. Non appena, poi, alzano lo sguardo rischiano di perdersi. Quando, infatti, passano dall’evitare gli ostacoli immediati a fare scelte di maggior impegno e respiro si trovano disorientati perché dotati di mappe di interpretazione della realtà e del suo cambiamento che nessuno ha più aggiornato da decenni.
C’è però, soprattutto a Milano, una parte consistente delle nuove generazioni che è riuscita a raggiungere obiettivi di rilievo, non difendendosi ma cogliendo le opportunità delle grandi trasformazioni in atto nel sistema sociale e produttivo. Trentenni, qualificati, dinamici e intraprendenti che, usciti dalla linea d’ombra e avendo messo basi abbastanza solide nel proprio itinerario professionale, sono ora in grado di sollevare lo sguardo e contribuire a disegnare nuove mappe. Possono diventare intelligenza collettiva riflessiva della città in cambiamento, riconoscendone, più di altri, sia limiti che potenzialità. Milano ha grande bisogno di un’alleanza tra questa nuova coorte sociale emergente e la miglior politica, per trovare e consolidare il proprio spazio strategico di espansione verso il futuro.