Siamo entrati nell’anno dell’inversione di tendenza delle nascite? Quasi certamente nel 2022 si interromperà l’impressionante sequenza di record negativi osservati nel recente passato, ma non è ancora ben chiaro quanto ci rialzeremo. All’uscita dalla Grande recessione del 2008-13 l’Italia non ha mostrato alcuno slancio vitale. Dopo il minimo storico pari a 503 mila nel 2014, le nascite sono scese sotto 500 mila nel 2015 e poi via via ancor più sotto fino a 420 mila nel 2019. Nel 2020 si è aggiunto l’impatto negativo della crisi sanitaria. Nel complesso, in meno di quindici anni, dal 2008 al 2021, l’Italia è crollata da 577 mila a 400 mila nati. Ricordiamo che il dato del 2008 era comunque già di oltre 200 mila unità inferiore alle nascite osservate a metà degli anni Settanta, prima che il numero medio di figli per donna scendesse definitivamente sotto 2 (livello che garantisce l’equilibrio tra generazioni).
Ma quello che ora conta è cosa accadrà dal 2022 in poi. Invertiremo finalmente la rotta prima che sia definitivamente troppo tardi? Alcune condizioni favorevoli ci sono. Gli elementi positivi sono il fatto che il desiderio di formare ed estendere la famiglia c’è e non è più basso rispetto a paesi con fecondità più alta in Europa. Inoltre, ci sono le misure previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza assieme al pacchetto del Family act, finalmente diventato legge con la recente approvazione al Senato, che costituiscono una novità in grado di dare nuovo impulso rispetto alle carenze del passato.
Nel frattempo, però, l’asticella si è alzata perché più si tarda ad agire e più gli squilibri strutturali della popolazione italiana si accentuano indebolendo le basi vitali del paese. Quali sono ora le condizioni, quindi, per entrare in una nuova stagione ed evitare di trovarci condannati ad un inverno demografico senza fine? Dobbiamo prima di tutto aver chiaro lo scenario a cui vogliamo puntare e poi mettere in atto politiche efficaci per raggiungerlo. Nel 2014 il numero medio di figli per donna era pari a 1,37 e questo consentiva di ottenere circa 503 mila nati. Lo scenario mediano dell’Istat delle ultime previsioni (pubblicate alla fine del 2021) prospetta un aumento della fecondità da 1,24 figli attuali a 1,37 nel 2030 (per poi arrivare a 1,5 nel 2050). Questa ripresa non sarebbe però più in grado di farci tornare a 500 mila nati, ma ci condannerebbe a recuperare solo nel 2035 le nascite pre-pandemia del 2019 (pari a 420 mila) per poi tornare, comunque, a scendere ancora e portarci definitivamente sotto le 400 mila prima dell’entrata nella seconda metà del secolo. Accettare questa prospettiva significa rassegnarsi a squilibri crescenti, tra i peggiori in Europa in termini di rapporto tra popolazione anziana e generazioni al centro della vita attiva. Se l’Italia ha visto negli ultimi anni il numero dei nuovi nati scendere sotto quello degli ottantenni, nello scenario mediano Istat nel 2050 i secondi arriverebbero ad essere il doppio dei primi.
Per scongiurare questo scenario va evitata la trappola demografica e questo è possibile solo con un aumento della fecondità in grado di più che compensare la riduzione della popolazione in età riproduttiva. Con un numero medio di figli per donna che riuscisse a salire a 1,63 nel 2035, come contemplato nel più ottimistico tra gli scenari prospettati dall’Istat, si arriverebbe a 486 mila nati. Una spinta, quindi, non sufficiente a ritornare sopra le 500 mila entro la metà del secolo. Questo significa che, secondo tali previsioni, l’Italia sarebbe comunque condannata a vincolare i nuovi nati dei prossimi decenni (la Next generation italiana) su livelli ancor più bassi rispetto alla Generazione Zeta (gli attuali ventenni). Per contrastare, invece, davvero la trappola demografica ed evitare di andare incontro a scenari tra i peggiori al mondo serve una solida ripresa, tale da portare entro il 2035 la fecondità italiana sopra 1,75 (la Francia nel 2019 era sopra 1,85). La popolazione italiana continuerebbe a diminuire ma contenendo gli squilibri strutturali interni su livelli più sostenibili.
Al di là dell’ulteriore record negativo del 2021 sulle nascite totali, le dinamiche osservate nel corso di tale anno offrono due indicazioni interessanti, una negativa e una positiva. La prima è il rischio di cronicizzazione delle difficoltà delle generazioni più giovani. Le nascite da donne under 30 hanno mostrato variazioni negative persistenti, non solo in corrispondenza delle varie ondate epidemiche ma anche tra le varie ondate. Valori positivi, coerenti con un recupero dei concepimenti rinviati, si osservano solo nelle fasce di età successive, in particolare dopo i 35 anni. La seconda è la forte variazione positiva registrata alla fine del 2021. In particolare, dicembre sembra avere più che recuperato la caduta dell’analogo mese nel 2020, tornando poco sopra il dato del 2019.
Ancora non sappiamo se questo dato fa parte solo di un recupero temporaneo dei concepimenti rinviati durante la crisi sanitaria o è il primo segnale dell’avvio di una solida e duratura fase di inversione di tendenza. Quello che, però, possiamo chiederci è se stiamo facendo tutto il possibile per favorire il secondo dei due percorsi possibili. Dobbiamo essere consapevoli che non bastano le buone intenzioni e nemmeno le risorse assegnate a misure da tempo attese. E’ fondamentale una implementazione di successo, che non può mai essere data per scontata.
Lo testimonia, in particolare, il fatto che le domande per ottenere l’assegno unico universale subito, sin dal primo mese di erogazione (marzo 2022), sono state meno della metà; che le candidature da parte dei comuni al bando per potenziare la rete dei nidi con i fondi del PNRR hanno riguardato solo metà dei finanziamenti disponibili (1,2 miliardi rispetto a 2,4 miliardi stanziati); che il congedo di paternità, pur esteso, risulta utilizzato da una minoranza dei padri; che gran parte dei giovani inattivi rimangono ancora fuori dal radar delle politiche pubbliche.
Tutto questo mette bene in evidenza che oltre il 50 percento della sfida per interventi di successo sul fronte delle famiglie e a favore delle nuove generazioni va vinta agendo sul modo in cui essi vengono realizzati, comunicati, accompagnati, monitorati, resi effettivamente accessibili, valutati nei loro esiti ai fini di un continuo miglioramento. Solo così potranno avere un impatto davvero universale e trasformativo.
E’, allora, soprattutto sulla qualità dell’implementazione delle politiche che il nostro paese è oggi messo alla prova rispetto alla capacità di riorientare il proprio percorso verso un futuro più solido ed equilibrato, non solo dal punto di vista demografico.
Il conflitto in Ucraina getta ulteriore incertezza. La spinta verso una nuova fase di crescita rischia di indebolirsi se non si risponde con un rafforzamento delle condizioni delle famiglie e degli strumenti che mettono in relazione positiva vita e lavoro. Ma va gestito al meglio anche un esodo di profughi ucraini con numeri che non hanno precedenti nella storia europea del secondo dopoguerra. La solidarietà sinora espressa deve trasformarsi in misure che prevedano una possibile permanenza stabile, con prospettive di inclusione attiva nel sistema sociale ed economico. Anche sulle politiche migratorie un salto di qualità aiuterebbe a gestire meglio gli squilibri presenti e futuri.