La rinuncia ai figli e il declino italiano

Quale sarà la demografia italiana nel “new normal”? Quale significato e condizioni troverà la scelta di avere un figlio?

Nel suo tradizionale discorso di fine anno il Presidente Mattarella ha messo bene in luce l’impatto della crisi sanitaria sul paese, ma anche sulle storie individuali e sui progetti di vita. Ha, infatti ricordato, che la pandemia “ha scavato solchi profondi nelle nostre vite, nella nostra società. Ha acuito fragilità del passato. Ha aggravato vecchie diseguaglianze e ne ha generate di nuove. Tutto ciò ha prodotto pesanti conseguenze sociali ed economiche”. Ha, inoltre, aggiunto che la crisi sanitaria “ha seminato un senso di smarrimento: pone in discussione prospettive di vita. Basti pensare alla previsione di un calo ulteriore delle nascite, spia dell’incertezza che il virus ha insinuato nella nostra comunità”.

Quale sarà la demografia italiana nel “new normal”? Quale significato e condizioni troverà la scelta di avere un figlio? Se ci chiediamo cosa caratterizzerà il percorso del paese dopo la pandemia, una prima risposta è senz’altro quella di una popolazione italiana che andrà continuamente a ridursi. L’Italia è entrata in una fase nuova della sua storia, quella del declino demografico. Una fase che condizionerà tutto il percorso successivo di questo secolo. Non per colpa della crisi sanitaria in sé, che però può dare una forte spinta in una direzione diventata oramai irreversibile.

I primi risultati del censimento continuo dell’Istat – che ha sostituito quello tradizionale la cui ultima edizione si è svolta nel 2011 – ci hanno rivelato che nel corso degli anni Dieci la spinta alla crescita demografica si è definitamente esaurita e che siamo tornati sotto i 60 milioni di abitanti. Alla base del processo di diminuzione c’è un saldo naturale negativo (eccedenza di decessi sulle nascite) diventato così ampio che l’immigrazione non basta più a compensarlo. Nel 2019 è stato pari a -214 mila, come differenza tra 634 mila decessi e 420 mila nascite.

Agisce come fattore di allargamento di tale divario il progressivo sbilanciamento della popolazione verso le età più avanzate. Da un lato, la crescita della componente anziana fa aumentare il numero dei decessi. D’altro lato, la riduzione della componente più giovane, nelle età in cui si forma una propria famiglia, fa diminuire il numero delle nascite. Se, quindi, la denatalità va ad inasprire gli squilibri demografici, gli stessi squilibri vanno a progressivamente a indebolire la fascia di popolazione che può produrre ulteriori nascite e a consolidare il peso di quella più vulnerabile alla mortalità. Così i decessi sono destinati ancor più a lievitare e le nascite a contrarsi. La riduzione osservata nei dieci anni precedenti la pandemia è tale che se si continuasse con lo stesso ritmo arriveremmo a zero nati prima della metà di questo secolo.

Contenere la riduzione della natalità e favorirne una ripresa non è più un obiettivo che può, quindi, invertire la curva declinante della popolazione, ma è cruciale per non rendere ancora più gravi – per le ricadute sociale ed economiche – gli squilibri sulla struttura per età, in particolare nel rapporto tra vecchie e nuove generazioni.

Il margine su cui agire è il livello di fecondità, che attualmente è sui valori più bassi di sempre per le cittadine italiane (1,18 figli per donna). Grazie alla componente straniera si sale a 1,27, livello che però non ci consente di lasciare il fondo della classifica europea.

Risalire fino a convergere in dieci anni con la media europea (1,55) e successivamente su valori più vicini a 2 aiuterebbe le nascite a non inabissarsi troppo, pur rimanendo abbondantemente sotto il numero dei decessi. Va, tra l’altro, considerato che se anche noi arrivassimo ai livelli dei paesi con più alta espressione della fecondità (come la Francia), otterremmo comunque meno nascite per la relativamente più debole presenza di popolazione nelle età più fertili.

Ma anche sul versante della propensione ad avere figli rischiamo ora di indebolirci. Supponiamo che le nuove generazioni smettano del tutto di volere dei figli, cosa accadrebbe? Nessuna politica potrebbe costringerli ad averli e il XXI secolo verrebbe ricordato come quello dell’estinzione degli italiani. Ma prima ancora osserveremmo un tracollo dell’economia e del sistema di welfare. Nessuno darebbe più credito al nostro paese e anche il debito diventerebbe impossibile da sostenere. Uno scenario che si avvicina molto a quello appena delineato si otterrebbe se le nuove generazioni continuassero a desiderare di avere figli, ma in modo sempre più debole, rassegnandosi alla necessità di rivedere al ribasso le scelte di formazione di una propria famiglia. Avremmo, in tal caso, sempre più giovani che se ne vanno all’estero, mentre chi rimane in Italia si adatta in maggioranza a non averne o ad averno uno solo.

Non si tratta di uno scenario irrealistico. Molti elementi ci dicono, anzi, che il nostro paese è tra quelli più a rischio di subire una tale deriva. I dati Istat mostrano che la riduzione della fecondità dal 2010 al 2019 è praticamente tutta da attribuire alla minore propensione ad avere figli degli under 35. I dati delle indagini dell’Osservatorio giovani, compresa quella più recente condotta ad ottobre 2020, evidenziano che se il numero desiderato di figli risulta mediamente vicino a due, in linea con gli altri paesi europei, il numero di figli che realisticamente si pensa di riuscire ad avere è sotto 1,5. In particolare circa il 43 percento pensa che non ne avrà nessuno o solo uno. Ma si sale attorno al 50 percento per chi ha tra i 30 e i 35 anni. Ovvero, non solo le nuove generazioni stanno rivedendo al ribasso i propri obiettivi di formazione della famiglia, ma più avanzano con l’età e si confrontano con le difficoltà oggettive, più li riducono ulteriormente.

Può vedere senza preoccupazione questi dati solo chi pensa che gli squilibri demografici non siano un problema e chi non è interessato al destino delle nuove generazioni. La rinuncia ad avere figli è infatti l’indicatore più sensibile delle difficoltà che i giovani incontrano in tutto il percorso formativo e professionale, assieme a una forte incertezza rispetto al proprio futuro. Ripartiamo almeno da questa consapevolezza, ben espressa dal presidente Mattarella, che la crisi delle nascite è la spia più chiara dell’incertezza sul futuro di una comunità.

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