La ricostruzione del dopo Covid non potrà ignorare gli under 40

E’ soprattutto tra i 25 e i 39 anni che si trova oggi la forza lavoro più esposta all’impatto economico dell’epidemia: le persone senza un contratto a tempo indeterminato o senza una professione consolidata.

L’Italia sembra finalmente incamminata sulla via di uscita dall’emergenza sanitaria. Il Presidente Conte ha annunciato domenica scorsa tempi e modalità della riapertura. Vedremo ora la preoccupazione per la gravità della crisi progressivamente spostarsi dall’andamento dei decessi a quello dei disoccupati.

Due diversi approcci sono possibili in questa fase. Il primo ha alla base l’idea che si debba riparare il danno subito dall’economia. Questo significa porsi come obiettivo la difesa dell’esistente. Si punta ad aiutare le imprese presenti e la posizione occupazionale di chi lavorava al momento del lockdown. L’attenzione principale va alla “ricostruzione” in senso stretto, realizzabile anche senza un nuovo progetto che porti il paese oltre i limiti e le resistenze del passato. La misura del successo, in questa prospettiva, sta nella capacità di ripristino rispetto a quanto la crisi ha tolto.

Il secondo approccio, invece, ha alla base la convinzione che sia necessario mettere il Paese nelle migliori condizioni di crescere dopo la discontinuità prodotta dalla crisi sanitaria. Conta quindi, più che salvaguardare ciò che c’era ieri, capire cosa serve oggi per favorire una nuova solida fase di sviluppo. La misura del successo è, qui, data dalla capacità di aggiunta rispetto a ciò che mancava al paese prima della crisi. Questo significa, ad esempio, consentire ai nuovi entranti nel mondo del lavoro di essere dotati delle competenze più adatte per un’Italia con meno economia sommersa, con maggior innovazione tecnologica, con piccole e medie imprese digitalizzate; in grado di fornire offerta avanzata alla domanda di beni e servizi di qualità e valore sui temi della sicurezza e della salute, della green e della silver economy, della conciliazione tra lavoro e famiglia, dei nuovi modi di stare in relazione, di formazione, di fruizione culturale, di condivisione di esperienze di intrattenimento e spettacolo.

Coloro che hanno oggi vent’anni costituiscono la punta più avanzata della prima generazione nata nel XXI secolo. Nel decennio che abbiamo appena iniziato vivranno la fase cruciale di entrata nel mondo del lavoro. Come sarà questo secolo, quale percorso avrà l’Italia, dipenderà in larga misura da come la loro generazione interpreterà il proprio ruolo nel modello sociale e di sviluppo del Paese. Oltre a tutto questo, oggi sappiamo che esiste anche una forte discontinuità, prodotta dalla pandemia di Covid 19, che rafforza ancor più la collocazione di tale generazione come faglia: tutto quello che verrà riadattato e riorientato nel nuovo scenario deve poter funzionare soprattutto con loro per avere davvero successo oltre l’emergenza.

Tra i nati in questo secolo (su cui forgiare il nuovo progetto di sviluppo del paese) e la popolazione adulta e matura (che nel presente occupa una posizione consolidata nel mondo del lavoro e con progetti di vita già strutturati), c’è una generazione di mezzo: si tratta di chi ha tra i 25 e i 39 anni.

Tale generazione, che corrisponde ai Millennial) è stata la prima ad essere giovane nel XXI secolo. Ha subìto la precedente crisi economica nel pieno della delicata transizione scuola-lavoro, in un paese che già offriva strumenti meno efficienti, rispetto agli altri paesi avanzati, per poterla realizzare con successo. Alla fine di tale crisi è mancata una solida ripresa, tanto che il divario rispetto alla condizione media dei coetanei europei -in termini di occupazione e valorizzazione nel mercato del lavoro – risultava addirittura allargato. Chi aveva poco più di 20 anni nel 2008 si è così trovato a superare i 30 con un forte ridimensionamento dei propri progetti professionali e di vita.

Una generazione, quindi, sommersa dalla recessione, che più che risollevarsi si era trovata ad annaspare negli anni successivi: non più giovane ma ancora lontana dal raggiungimento di posizioni solide all’interno della vita adulta. E mentre si trovava in tale condizione ecco che arriva una nuova tempesta. E’ soprattutto tra i 25 e i 39 anni che si trova oggi, del resto, la forza lavoro più esposta all’impatto economico dell’epidemia: le persone senza un contratto a tempo indeterminato o senza una professione consolidata.

Come mostrano i dati di una indagine internazionale condotta tra fine marzo e inizio aprile dall’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo –presentata martedì nel corso di un webinar dell’Università Cattolica con la presenza del Ministro Bonetti –  sono proprio i trentenni in tali condizioni che rischiano di dover rinviare sine die i propri progetti di vita. Oltre il 55% dichiara di sentirsi più a rischio per il lavoro rispetto a prima della crisi sanitaria e oltre il 60% vede a rischio i propri piani sul futuro. I valori più elevati si riscontano tra chi cerca lavoro, chi ha contratti a tempo determinato, chi ha attività autonoma da poco avviata. Notevoli anche le differenze con gli altri grandi paesi europei. In particolare è di oltre 20 punti più alta in Italia rispetto alla Germania la percentuale di chi ha sospeso qualsiasi scelta programmata di autonomia, formazione di una propria famiglia, avere un figlio.

Tale generazione di mezzo italiana non può ora trovarsi condannata ad essere marginale sia rispetto alle misure di salvaguardia dell’esistente, sia a quelle di investimento sul capitale umano utile ad alimentare una nuova fase di crescita nel medio-lungo periodo. Deve, anzi, essere messa nelle condizioni di diventare l’anello di congiunzione tra tali due azioni strategiche, partendo da un ruolo centrale assegnato a tale fascia d’età nel processo di ripartenza in sicurezza. La spinta più immediata per ridare vitalità al paese possono darla solo loro, se messi nelle condizioni di tornare a credere nelle proprie ambizioni professionali e riappropriarsi pienamente dei loro progetti di vita.

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