La qualità del lavoro salva le società del rinnovo generazionale debole

La demografia, se usata come chiave di lettura, ci aiuta ad ampliare e potenziare il campo visivo per capire da dove arrivano i cambiamenti in atto e quali scenari abbiamo di fronte.

Il recente Rapporto annuale dell’Inps somiglia molto ad una rassicurante comunicazione dal ponte di comando ai passeggeri quando il rischio di trovare sulla rotta un iceberg è elevato ma per il momento tutto procede tranquillamente e non c’è nulla di preoccupante in vista. I resoconti del naufragio del Titanic dicono che l’iceberg fu avvistato quando si trovava approssimativamente a 500 metri di distanza. Venne subito ordinata una manovra di emergenza con virata a sinistra, ma, a causa della grande massa della nave, non fu sufficiente ad evitare la collisione. La demografia ha una propria inerzia analoga a quella di una grande nave. Più aspettiamo a fare le operazioni che servono, più alto è il rischio di andare incontro ad un destino nefasto. All’interno del territorio italiano ci sono già contesti in tale situazione. Alcune aree interne del nostro Paese si trovano con una combinazione di bassa natalità, fuoriuscita netta di giovani, struttura demografica compromessa, da non aver più margine per cambiare la rotta che porta verso l’insostenibilità sociale ed economica.

È allora forse utile non accontentarsi di guardare anno per anno l’aggiornamento degli indicatori sul percorso che l’Italia sta facendo, ma alzare lo sguardo sui grandi mutamenti di fondo in atto e capire come l’Italia si colloca al loro interno. La demografia, se usata come chiave di lettura, ci aiuta ad ampliare e potenziare il campo visivo per capire da dove arrivano i cambiamenti in atto e quali scenari abbiamo di fronte. Fornisce la cornice entro cui viene disegnato il contratto sociale e generazionale di una comunità. Se questo è vero il contratto attuale non funziona più e va riscritto. Non può più essere quello dei primi decenni del Secondo dopoguerra, ma nemmeno quello delle riforme avviate a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. Da allora sono intervenuti tre mutamenti rilevanti che corrispondono a tre diversi scenari della Transizione demografica. Il compromesso sociale alla base dello sviluppo del sistema di welfare degli anni Cinquanta e Sessanta aveva come presupposto l’idea che, abbandonati gli elevati livelli di natalità del passato, il numero di figli per donna si sarebbe stabilizzato attorno a due e che, dopo aver liberato dagli elevati rischi di morte la fase giovanile e adulta, l’aspettativa di vita si sarebbe stabilizzata attorno ai 7o anni o poco sopra. Questo in coerenza con la teoria classica della Transizione che prevedeva che alla fine del processo la popolazione smettesse di crescere arrivando ad assumere una struttura stazionaria, ovvero una configurazione con base della piramide demografica che da larga diventa rettangolare (ogni nuova generazione ha un ammontare simile alla precedente) e con vertice posizionato in modo stabile su età più elevate che in passato. Quello che si ottiene in questo scenario è il passaggio ad una “società matura”, nella quale ci sono meno giovani e più anziani (nel senso tradizionale del termine) ma con un rapporto tra tali due componenti che si assesta su un nuovo equilibrio (attorno a cui costruire un coerente modello economico e sociale).

Questo scenario teorico viene messo in crisi negli ultimi decenni del XX secolo, quando si prende atto che dopo aver reso del tutto normale per un nuovo nato arrivare fino ai 70 anni, il processo di transizione non si ferma ma continua, facendo guadagnare annidi vita in età sempre più avanzate. Questo rende la Transizione demografica il passaggio alla “Società della longevità”. Un passaggio che porta a rivoluzionare condizioni, rischi e opportunità nelle varie fasi della vita – in interdipendenza con le trasformazioni sociali, culturali, tecnologiche – oltre ad aver ricadute sui rapporti intergenerazionali. In questo secondo scenario il vertice della piramide si alza, ma la fecondità stabilizzata attorno ai due figli per donna fa sì che ogni nuova generazione si trovi con una consistenza in linea con quelle precedenti.

L’invecchiamento della popolazione risulta, in questo caso, moderato e determinato a regime solo dall’aumento della longevità. Diventa quindi più facile gestire tale processo come opportunità da cogliere, investendo sulle condizioni che consentono alla quantità di anni in più di diventare qualità di vita che si aggiunge, favorendo una lunga vita attiva e garantendo adeguata assistenza in età molto avanzata. Uno scenario messo, a sua volta, in discussione nel secondo decennio del XXI secolo, con la constatazione che tutti i Paesi arrivati alla fine della Transizione demografica anziché stabilizzarsi attorno ai due figli per donna, tendono sistematicamente a scendere sotto il livello di rimpiazzo generazionale. Si apre allora un terzo scenario, quello che porta alla “Società del rinnovo generazionale debole”. All’interno di quest’ultimo scenario esiste, però, un’ampia differenza di esperienze tra i vari Paesi. Dove, grazie a politiche solide e continue, la fecondità è poco sotto a due la popolazione tende, in combinazione con flussi migratori positivi, a mantenere una certa stabilità come ammontare e come struttura interna. Dove, invece, come in Italia, la fecondità si trova persistentemente molto inferiore al livello di due, la popolazione tende a diminuire in modo sempre più accelerato e ad alimentare squilibri interni che diventano via via più accentuati e solo in parte compensati dall’immigrazione. Nel contesto di questo scenario e ancora più per l’Italia, diventa quindi vitale un nuovo contratto sociale che metta al centro delle politiche di welfare e di sviluppo la riduzione dei divari generazionali e di genere, destinando a tale obiettivo il miglior impegno e le maggiori risorse. La qualità della formazione e del lavoro, oltre che la qualità di strumenti e servizi per la conciliazione dei percorsi professionali con le scelte di vita, devono essere posti come punti chiave di tale contratto. Si tratta dell’investimento migliore che l’Italia può fare per dare maggior solidità ad un futuro che oggi poggia su basi molto fragili. Ha infatti ricadute positive anche sulla natalità, favorendo le condizioni perché giovani e donne possano fare la scelta di avere un figlio senza continuo rinvio che porta poi spesso a rinuncia. Aiuta a ridurre i divari territoriali perché gli svantaggi di genere e generazionali sono maggiormente presenti nel Mezzogiorno. Migliora l’immigrazione da domanda perché i contesti più attrattivi e con migliori possibilità di integrazione sono quelli che riconoscono le differenze senza trasformale in diseguaglianze, offrendo in particolare adeguate opportunità a giovani e donne, indipendentemente dalla provenienza sociale e territoriale. Serve quindi un contratto, con impegni chiari e target misurabili da monitorare anno dopo anno per alimentare un processo di continuo miglioramento che va oltre il colore dei Governi in carica. Il rischio è altrimenti quello di rimettere ogni volta tutto in discussione, ripartendo da zero o quasi, mentre nel frattempo il resto del mondo corre e gli squilibri demografici interni aumentano.

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