L’Italia vive uno dei suoi momenti più difficili del secondo dopoguerra. Il Rapporto annuale Istat 2020 lo ha certificato attraverso un ritratto crudo che mette assieme la condizione non felice del Paese nel 2019 con l’impatto drammatico nei primi mesi di quest’anno causato da Covid-19.
Un quadro su cui pesa non solo l’evidenza dei numeri ma anche il contesto di “complessità” e “incertezza” all’interno del quale le scelte individuali e collettive devono poter trovare nuovi punti di riferimento per essere riorientate nella giusta direzione. L’effettivo riscontro dell’impatto subìto e dei costi lo avremo con il Rapporto annuale del 2021, che ci racconterà quale scossa la crisi sanitaria, diventata crisi economica e sociale, avrà prodotto su un paese che già presentava persistenti fragilità e profonde fratture. I dati sin qui acquisiti ci dicono che se esistevano maggiori difficoltà nel nostro paese a collocare in modo efficiente le nuove generazioni nel mondo del lavoro, la situazione è ora peggiorata. Se l’occupazione femminile stentava a convergere verso la media europea, ora si trova ancor più in sofferenza. Se le diseguaglianze generazionali e di genere si intrecciavano con quelle sociali, ora questi nodi rischiano di diventare ancora più stretti.
Queste fragilità e fratture, nel vincolare al ribasso condizioni e percorsi dei giovani e delle donne, costituiscono anche il maggior freno alla realizzazione di progetti e scelte di vita. La decisione di avere un figlio, nelle economie mature avanzate, è fortemente legata alle prospettive di lavoro delle nuove generazione e alle equilibrate opportunità di genere, oltre che al clima sociale e alla visione positiva del futuro. I limiti che già presentava il paese nel suo percorso fino al 2019 su questi fronti e il peggioramento ulteriore dovuto alle conseguenze provocate da Covid-19, non possono che prefigurare un ulteriore crollo delle nascite (forse addirittura sotto le 400 mila annue) con accentuazione di squilibri demografici che erano già tra i più peggiori al mondo.
A questo punto – preso atto, con il Rapporto annale Istat, della situazione in cui eravamo nel 2019 e delle prime evidenze dell’impatto economico e sociale della crisi sanitaria – la possibilità di leggere dati diversi nelle edizioni dei prossimi anni dipende da quanto sono chiare le nostre idee di cosa vogliamo che cambi e di come farlo in modo efficace.
Dal punto di vista demografico sono due le incognite che si pongono, a cui si aggiunge un elemento di complicazione. La prima incognita non riguarda la riduzione o meno delle nascite, ma l’entità dietro il segno negativo nel 2020 e 2021. La seconda incognita è invece relativa a quanto accadrà dopo: se non ci sarà una ripresa, la curva demografica sfavorevole diventerà uno dei principali vincoli alla crescita economica, minando in modo irreparabile anche la sostenibilità sociale. L’elemento di complicazione è il fatto che la demografia non consente di dimenticare semplicemente il passato e ripartire, ma presenta una forte componente inerziale: la persistenza della natalità su valori bassi sta riducendo progressivamente le potenziali madri, facendo entrare l’Italia in una spirale negativa in cui la denatalità passata accentua la denatalità futura e alimenta ulteriormente gli squilibri. Questo significa che lo stesso ritardo ad invertire la rotta fa crescere il peso che ci trascina verso il basso.
C’è però anche una buona notizia. Il Rapporto annuale Istat conferma che i desideri dei giovani, delle donne e delle coppie italiane non sembrano esser stati scalfiti dalle inefficienze passate e dalla pandemia. Se però nella nuova normalità non consentiremo ad essi di realizzarsi compiutamente, non rimarrà che prepararsi a pagare i costi di rinunce e squilibri crescenti.