Il sistema si salva con politiche su immigrazione e natalità

La demografia aiuta a capire come il mondo sta cambiando e quali scenari si prospettano, ma si rivela anche implacabile verso chi non fa le scelte giuste per tempo.

Dal punto di vista demografico, ma non solo, possiamo dividere l’intero pianeta in “partes tres”. La prima parte fino alla metà del secolo scorso coincideva con l’intero mondo, ora raccoglie circa metà degli stati, ma è destinata a trovarsi praticamente vuota alla fine di questo secolo. E’ composta dai paesi con una fecondità superiore ai due figli in media per donna.

Il processo di transizione demografica, avviato in Europa nel XIX secolo dopo la sconfitta delle grandi epidemie, prevede che i rischi di morte siano quasi azzerati dalla nascita fino all’entrata in età anziana e che la fecondità scenda fino a posizionarsi attorno a due. Quando, infatti, la probabilità di morte in età prematura è trascurabile, sono sufficienti due figli per sostituire i genitori e mantenere così in equilibrio il rapporto tra generazioni. Una fecondità più elevata porta ad una continua crescita della popolazione, se invece è sistematicamente più bassa condanna ad un progressivo declino. I paesi con numero medio di figli per donna superiore a due non sono più oggi la maggioranza, ma mantengono un impatto rilevante sulle dinamiche della popolazione mondiale. In particolare circa la metà della crescita demografica fino al 2050 è concentrata in otto stati africani e asiatici.

La seconda parte del mondo è formata dai paesi in cui il tasso di fecondità si è assestato poco sotto il valore soglia di due. Questi paesi – come Francia, Stati Uniti, Svezia, Australia tanto per citarne alcuni anche molti diversi tra di loro come regime di welfare – tendono a mantenere una popolazione stabile o in crescita solo grazie all’immigrazione. Nella terza parte rientrano, invece, gli stati in cui il numero medio di figli per donna è più vicino a 1 che a 2. Qui si trova l’Italia assieme a vari altri paesi del Sud ed Est Europa, ma anche alcuni paesi dell’estremo oriente come Corea del Sud e Giappone.

Mentre il gruppo dei paesi che rientrano nella prima parte è molto dinamico, con in corso una progressiva smobilitazione verso le altre due parti, queste ultime appaiono invece abbastanza stabilizzate sui livelli raggiunti. Una volta scesi diventa, infatti, molto più impegnativo e complicato risalire, perché richiede adeguate e mirate politiche a sostegno della scelta (non più scontata) di avere un figlio.

Secondo lo scenario centrale delle Nazioni Unite, il tasso di fecondità su scala mondiale era pari a 5 nel 1950, è oggi pari a 2,5, scenderà sotto la soglia di 2 prima della fine di questo secolo. Questo significa che esiste una globale tendenza a portare la fecondità sotto il livello di equilibrio generazionale. Dopo il boom del XX secolo e il rallentamento del XXI, il XXII secolo si presenta come quello del declino. Ma più che la diminuzione in sé della popolazione, la preoccupazione principale riguarda gli squilibri demografici, che si intrecciano con gli squilibri territoriali e sociali. La distinzione vera sarà, infatti, tra paesi con una fecondità poco sotto la soglia dei 2 figli, in grado di combinare l’aumento della longevità con il mantenimento di un solido ricambio della popolazione in età attiva, e paesi che rimarranno persistentemente sotto tale soglia, i quali si troveranno fatalmente con un progressivo indebolimento della capacità di produrre ricchezza e rendere sostenibile il sistema di welfare. I primi saranno contesti in cui si potrà vivere a lungo e bene, i secondi rischiano di invecchiare male. La demografia aiuta a capire come il mondo sta cambiando e quali scenari si prospettano, ma si rivela anche implacabile verso chi non fa le scelte giuste per tempo.

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