Il paradosso dell’immigrazione tra crescita e diseguaglianza

Al di là del clamore dato dai mass media agli sbarchi e alla componente irregolare, ci sono tanti stranieri regolarmente residenti che lavorano, contribuendo a far crescere l’economia del nostro paese, o frequentano la scuola, formandosi per diventare cittadini attivi nella società e nel mondo del lavoro.

L’immigrazione è un tema complesso, delicato e non scontato. Continua ad essere trattato come emergenza, mentre avrebbe bisogno di assestarsi con un ruolo riconosciuto e ben governato all’interno dei processi di sviluppo demografico ed economico del Paese. L’effetto spiazzamento prodotto dalla canzone-trailer del film “Tolo tolo” di Checco Zalone, condita di luoghi comuni ma poi del tutto ribaltati nel film stesso, rivela la difficoltà a trattare in modo sereno il tema e a sorridere sulle nostre contraddizioni. L’avvio da record nelle sale italiane, nonostante non si tratti di un innocuo prodotto comico, dimostra però anche la disponibilità nel Paese, quantomeno in ampia parte di esso, a cercare una diversa prospettiva (meno scontata delle paure e della chiusura) nel leggere la diversità e il confronto con l’altro.

Al di là del clamore dato dai mass media agli sbarchi e alla componente irregolare, ci sono, infatti, tanti alberi che in silenzio crescono all’interno del bosco italiano: sono gli stranieri regolarmente residenti che lavorano, contribuendo a far crescere l’economia del nostro paese, o frequentano la scuola, formandosi per diventare cittadini attivi nella società e nel mondo del lavoro. Per chi, dopo la visione del film, volesse approfondire il tema, attraverso dati oggettivi e non vaghe percezioni, sono particolarmente utili il Rapporto 2019 di Caritas-Migrantes e della Fondazione Moressa. Tali dati ci dicono che gli alunni con cittadinanza straniera sono oltre 800 mila e che più di due su tre hanno conosciuto solo il sistema scolastico italiano nel proprio percorso formativo. I lavoratori con cittadinanza straniera sono quasi due milioni e mezzo. Sono circa uno su dieci sul totale degli occupati in Italia e producono una ricchezza superiore a quanto complessivamente attingano dal welfare pubblico. Risultano attivi soprattutto nel settore alberghiero e ristorazione, nell’industria in senso stretto, nelle costruzioni, nell’agricoltura e nei servizi alle famiglie. Si tratta di una presenza oramai imprescindibile per il funzionamento del nostro sistema produttivo. Va considerato inoltre che – pur pensando di portare l’occupazione giovanile e femminile alla media europea nei prossimi anni – la riduzione demografica prodotta dalla denatalità passata, a fronte dell’accentuato invecchiamento della popolazione, è destinata a produrre crescenti squilibri nel rapporto tra pensionati ed occupati. Squilibri che senza il contributo degli immigrati risulterebbero ancora più accentuati. Oltre agli stranieri già presenti, prevedere flussi annui di ingresso adeguatamente governati – nella misura in cui possono sostenere la crescita economica e in funzione della capacità di integrazione – va nella direzione di rinsaldare il percorso di sviluppo del Paese.

Oggi però la presenza straniera sul suolo italico stenta a diventare parte integrante di una collettività che valorizza tutte le componenti per produrre ricchezza e nuovo benessere. Gli stranieri si trovano, anzi, ad essere una delle categorie più vulnerabili all’interno delle fratture sociali che attraversano oggi il nostro Paese. Le stesse restrizioni e difficoltà di accesso al reddito di cittadinanza sono una dimostrazione del basso interesse a ridurre i rischi di esclusione sociale su tale componente dei residenti regolari in Italia.

Nel suo ultimo Report sulla povertà, l’Istat mostra come la cittadinanza delle famiglie abbia un ruolo importante sulla deprivazione materiale: “la povertà assoluta per le famiglie di soli italiani con minori è, infatti, pari al 7,7%, mentre interessa quasi una famiglia ogni tre in quelle composte da soli stranieri con minori (31,0%)”. Il numero di figli e la condizione lavorativa espongono in modo amplificato le famiglie immigrate al rischio di trovarsi in difficoltà economica e a maturare disagio sociale.

I dati del Ministero del lavoro evidenziano la persistenza in Italia di una forte segmentazione professionale, con una decisa preponderanza degli stranieri nei profili esecutivi ed una presenza invece molto rara tra i quadri e i dirigenti. Più in generale c’è una forte concentrazione degli immigrati tra i lavori considerati meno appetibili, meno remunerati e più rischiosi. Gli stessi dati degli incidenti sul lavoro mostrano una crescente sovraesposizione dei lavoratori di cittadinanza non italiana.

Ma anche la trasmissione intergenerazionale delle diseguaglianze sociali che caratterizza complessivamente l’Italia ha ricadute ancora più marcate sugli immigrati. Le inefficienze del sistema formativo e del percorso di transizione scuola-lavoro che sperimentano i giovani italiani tendono, in particolare, a manifestare fragilità ancor più accentuate sui figli degli stranieri. Tra chi trova lavoro risulta, inoltre, più alto il rischio di adattarsi a profili inferiori rispetto al proprio titolo di studio. Alta è però anche l’eterogeneità interna, con molti esempi di successo formativo e professionale che si manifestano quando sono offerte le condizioni adatte.

L’Italia deve, in definitiva, decidere se l’immigrazione va considerata come componente stabilmente integrata nel modello sociale di una economia che vuole crescere o un fattore che alimenta diseguaglianze sociali in un paese rassegnato al declino. Non scegliere e agire coerentemente equivale ad accettare implicitamente la seconda opzione.

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