Il futuro demografico del mondo si gioca nelle aree rurali e nelle megalopoli

Dobbiamo fare in modo che le megalopoli congestionate dei paesi in via di sviluppo e le aree interne in crisi della vecchia Europa, su polarità opposte, non siano l’anticipazione del mondo in cui ci troveremo a vivere alla fine di questa lunga transizione

Una cosa è certa delle dinamiche demografiche mondiali: fatte salve catastrofi, che nessuno può auspicare, la popolazione del pianeta è destinata nella seconda metà di questo secolo a superare i 10 miliardi. Dobbiamo quindi prepararci ad accogliere altri due miliardi di persone.


L’aumento della popolazione dipende da due fattori: il tasso di fecondità (numero medio di figli per donna) e il numero di persone in età riproduttiva. La fecondità media mondiale è passata da 5 a 2,3 dal 1950 ad oggi. La diminuzione di tale indicatore ci dice che il motore della crescita demografica gira sempre meno velocemente, ma il fatto che sia ancora superiore a 2 ci avverte che, pur in modo rallentato, la fase di aumento non è ancora terminata. Va precisato che se anche portassimo già oggi a 2 il tasso di fecondità, la popolazione continuerebbe comunque per un po’ a lievitare. Ciò è dovuto al secondo fattore che sta alla base della crescita: la popolazione in età riproduttiva. In larga parte del mondo la presenza di giovani, che va ad alimentare tale fase della vita, è ancora abbondante. Secondo le stime delle Nazioni Unite due terzi della crescita futura della popolazione mondiale è dovuta a questo secondo fattore (effetto inerziale) e solo un terzo al primo.
Questi due fattori esercitano attualmente la loro maggiore espressione nei paesi dell’Africa sub-sahariana.
Più che preoccuparci di quanti in più saremo, visto che i giochi oramai sono fatti e le dinamiche della popolazione per il resto del secolo sono in larga parte già scritte, la questione di cui occuparsi è dove si troveranno le persone che si aggiungono e come vivranno.
E’ bene essere consapevoli che i prossimi decenni sono quelli più problematici, ovvero quelli in cui maggiormente si sentirà la pressione della crescita sul pianeta prima che la Transizione demografica, questo processo unico nella storia dell’umanità, si concluda. Si tratta di una conclusione che, però, non porta ad un nuovo equilibrio, ma lascia due punti aperti.
Se nelle epoche passate la presenza umana aumentava lentamente nel medio e lungo periodo, dopo la Transizione demografica la popolazione potrebbe – qui sta il primo punto aperto – andare verso un secolare declino. Tutti i paesi nella fase più avanzata presentano, infatti, una fecondità persistentemente sotto i 2 figli per donna.
Il secondo punto aperto riguarda invece la longevità. Nelle epoche passate la durata di vita era breve e senza miglioramenti nel passaggio da una generazione alla successiva. Meno della metà dei nati arrivava all’età dei genitori. Con la Transizione demografica si è avviato un processo di continua estensione che non ha un termine predefinito. Un’estensione avvenuta in due passaggi. Il primo, già concluso nei paesi più ricchi e in fase di completamento nel resto del pianeta, è l’abbattimento dei rischi di morte nelle fasi tradizionali della vita. Il secondo passaggio è quello del continuo guadagno di vita nelle età più mature.
Se la fase post-transizionale rimane quindi aperta, ad essere certa è la direzione verso cui stiamo andando, che è quella dell’entrata nella “società della longevità”, caratterizzata da una struttura demografica irreversibilmente e profondamente diversa da come è sempre stata nel passato.
L’ultimo tratto per arrivarci è però, come abbiamo detto, particolarmente turbolento. Sulla strada c’è la sfida combinata di una popolazione che crescerà fin oltre i 10 miliardi, con ritmi molto differenziati nelle varie aree del pianeta e nelle diverse fasce d’età. Con corrispondenti implicazioni non scontate e difficili da gestire sulle possibilità di sviluppo economico, sulle condizioni sociali, sui flussi migratori, sull’impatto ambientale.
Le due realtà opposte in cui leggere come tali fattori si combinano e a quali rischi ci espongono sono quelle delle megalopoli e delle aree rurali in spopolamento. Le prime sono in forte crescita soprattutto nei paesi ad alta pressione demografica, le seconde interessano parti sempre più ampie del territorio europeo.
L’inversione del rapporto tra popolazione rurale e cittadina è uno dei grandi cambiamenti del nostro tempo. Il sorpasso della seconda sulla prima è avvenuto nei primi anni di questo secolo. Oggi vive nelle città oltre il 55% degli abitanti del pianeta e si stima che nel 2050 saranno due su tre. Le megalopoli, con oltre 10 milioni di residenti, nei primi decenni del secondo dopoguerra erano poche unità concentrate nei paesi del G7, oggi sono 35 con netta prevalenza nei paesi in via di sviluppo. Tali contesti costituiscono certo fonte di opportunità e innovazione, ma presentano anche un alto impatto ambientale, condizioni di insicurezza e inasprimento delle diseguaglianze sociali.
La realtà opposta è quella delle aree montane e interne dei paesi occidentali in maggior crisi demografica, come l’Italia. All’interno dell’Unione europea vive nelle aree rurali il 25% della popolazione, ma esse occupano il 75% del territorio. Da un lato, quindi, sicurezza e cura del territorio europeo dipendono in larga misura dalla gestione delle aree rurali. D’altro lato i processi di declino demografico e invecchiamento che interessano tutto il continente risultano qui molto più accentuati. Una parte sempre più ampia delle aree interne sta entrando in una spirale negativa tra dinamica e struttura della popolazione, condizioni economiche e sociali: meno popolazione, meno sostenibilità dei servizi di base, più fuoriuscita di giovani, accentuazione degli squilibri demografici, indebolimento dello sviluppo economico, crescente difficoltà a mantenere servizi di qualità, ancor più bassa natalità e meno attrattività per le nuove generazioni. I dati più recenti mostrano un preoccupante aumento soprattutto dell’uscita di giovani donne.
Dobbiamo fare in modo che le megalopoli congestionate dei paesi in via di sviluppo e le aree interne in crisi della vecchia Europa, su polarità opposte, non siano l’anticipazione del mondo in cui ci troveremo a vivere alla fine di questa lunga transizione

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