Il cambiamento imposto non migliora le opportunità

Una politica improvvisata e con lo sguardo corto può solo imporre di cambiare ma non è certo in grado di indicare un futuro nuovo e far diventare desiderio comune il raggiungerlo.

Siamo esperti in Italia a trasformare le opportunità in vincoli. Non sapendo governare preferiamo obbligare. E’ vero che a volte il cambiamento va forzato, ma consentendo, nel caso, di arrivare preparati e con strumenti adeguati per gestirlo con successo. Questa attenzione non c’è stata, ad esempio, con la flessibilizzazione del mercato del lavoro. Con l’esito che l’occupazione giovanile non è migliorata e si è anzi espansa l’area grigia tra lavoro e non lavoro. Abbiamo così fatto scadere la flessibilità, potenzialmente positiva, in precarietà di vita. Se siamo un paese culturalmente resistente al cambiamento è anche perché la politica si è troppo spesso rivelata incapace di gestirlo in modo da ottenere vantaggi collettivi. Per crescere deve vincere il cambiamento di successo, quello che incoraggia scelte positive, non quello che complica la vita delle persone e induce reazioni difensive.

Un altro esempio è la sfida posta dalla longevità, che teoricamente dovrebbe portare le persone ad essere felicemente attive più a lungo. Rispetto agli altri paesi siamo invece stati più bravi a rendere un problema il fatto di vivere di più. Abbiamo preferito spostare rigidamente in avanti l’età di ritiro che creare condizioni favorevoli per una permanenza di successo dei senior nel sistema produttivo. Forzare i lavoratori maturi a rimanere e forzare le aziende a tenerseli rischia di spostare per tutti verso il basso la risposta data alla sfida della longevità.

Lo stesso difetto di impostazione si trova nell’alternanza scuola-lavoro prevista dalla legge 107/2015 che oggi molti insegnanti e aziende stanno vivendo più come imposizione che come valore aggiunto alla formazione. Per esplicita ammissione di chi l’ha realizzata, lo spirito è stato quello di buttare dirigenti scolastici, insegnanti e studenti in acqua e obbligarli a imparare a nuotare da soli, prima ancora di fornire strumenti e preparazione adeguata.

Più che fare di necessità virtù, qui il rischio è di far scadere la virtù in necessità. L’alternanza nasce da una esigenza vera, quella di aiutare le nuove generazioni a presentarsi al mercato del lavoro più preparate, non solo in termini di conoscenze teoriche ma anche di competenze tecniche e sociali. Lo confermano molte evidenze empiriche. I dati dell’indagine PIAAC-Ocse (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) mostrano come l’Italia sia uno dei paesi sviluppati con maggior carenza di competenze ritenute “indispensabili per partecipare attivamente alla vita sociale ed economica nel 21esimo secolo”. Il problema sta sia nella formazione di base sia nella bassa valorizzazione del capitale umano nelle aziende, il che genera un circolo vizioso che trascina verso il basso l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Ma le competenze che la scuola deve prima di tutto aiutare a formare sono quelle utili per trovare il proprio posto nel mondo prima ancora che un posto di lavoro. E’ la transizione dalla scuola alla vita adulta quella che va migliorata, che include certo anche il lavoro ma in un percorso che invita ad andare molto più lontano.

Una politica improvvisata e con lo sguardo corto può solo imporre di cambiare ma non è certo in grado di indicare un futuro nuovo e far diventare desiderio comune il raggiungerlo.

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