La popolazione del pianeta è avviata verso una stabilizzazione nella seconda metà di questo secolo, dopodiché si entrerà verosimilmente in una fase di declino. L’Europa ha già raggiunto il punto più elevato della sua parabola e si appresta a diminuire. L’Italia è già da vari anni in riduzione. Se, in particolare, c’è un bene che sta diventando sempre più scarso nel mondo è quello dei giovani. E’ questa la risorsa che stiamo depauperando maggiormente, ma più di tutti lo sta facendo il nostro paese.
Nello scenario centrale delle Nazioni Unite la popolazione dell’Italia è prevista scendere sotto i 40 milioni all’orizzonte del 2100. Queste proiezioni, pubblicate nel 2019, sono però più ottimistiche rispetto ai dati oggettivi finora disponibili, almeno per due motivi. Il primo è da ricondurre ad un andamento delle nascite italiane peggiore rispetto alle aspettative e questo già prima della pandemia. Nel periodo 2011 e il 2019 la riduzione complessiva è stata di oltre mezzo milione di nascite, che è l’equivalente di un’intera generazione annuale. Sarebbe stato percepito nell’opinione pubblica come un fatto traumatico se in un anno di tale periodo le nascite fossero crollate a zero. Eppure di fatto è quello che è avvenuto. Lo abbiamo affrontato con meno drammaticità solo perché la riduzione si è distribuita nei vari anni. Il secondo motivo è l’impatto stesso della pandemia. Lo scenario attualmente più verosimile non è quello centrale, ma quello più basso nel ventaglio dei percorsi ipotizzati. Questo significa che l’Italia potrebbe trovarsi alla fine di questo secolo – come conferma anche un recente studio pubblicato su Lancet da Vollset e colleghi – con un numero di abitanti pari a poco più della metà di quelli attuali.
Tutte le ipotesi di riduzione implicano una ulteriore sottrazione di giovani, con conseguente aumento degli squilibri tra generazioni in età anziana e nuovi entranti nelle età lavorative. Se oggi ci troviamo con un rapporto tra over 65 e popolazione attiva tra i peggiori al mondo, tale valore potrebbe raddoppiare entro il 2050. L’indice di vecchiaia, che esprime il rapporto tra il vertice e la base della piramide demografica, ha superato il valore di 1 alla fine del secolo scorso, è oggi pari a circa 1,8 e potrebbe arrivare a 3,5 over 65 ogni under 15 entro la metà di questo secolo. Ma sono molti gli indicatori economici e sociali a svantaggio delle nuove generazioni – come messo in luce da un insieme ampio di ricerche – che vanno ad alimentare una spirale negativa di “degiovanimento” quantitativo e qualitativo.
Per capire le implicazioni degli squilibri nel rapporto tra generazioni, supponiamo che esistano nel mondo due paesi. Il primo ha un numero medio di figli per donna che si mantiene nel tempo poco sotto 2. Di conseguenza, pur con saldo migratorio positivo, la popolazione non cresce ma nemmeno diminuisce (o si riduce molto lentamente). Ogni nuova generazione ha una consistenza sostanzialmente in linea con quelle precedenti. Pertanto, anche se aumenta la longevità, non si producono squilibri rilevanti tra componente anziana e fascia giovane-adulta. L’invecchiamento della popolazione risulta moderato e determinato di fatto solo dall’aumento della longevità. Diventa quindi più facile gestire tale processo come opportunità da cogliere, investendo sulle condizioni di una lunga vita attiva.
Il secondo paese ha invece una fecondità sotto 1,5. Di conseguenza la popolazione è in sensibile diminuzione: il saldo tra nascite e decessi diventa sempre più negativo e l’immigrazione non riesce più a compensarlo. A fronte di una popolazione anziana che aumenta il proprio peso, la riduzione della natalità rende sempre più debole la consistenza delle nuove generazioni. La persistenza nel tempo della bassa fecondità va via via a ridurre anche le generazioni in età riproduttiva, facendo entrare il paese in un circolo vizioso in cui la denatalità passata vincola sempre più verso il basso quella futura. Si indebolisce la forza lavoro e peggiora fortemente il rapporto tra anziani e popolazione attiva, con conseguente maggior difficoltà, rispetto al primo paese, sia di produrre ricchezza e benessere, sia di rendere sostenibile il sistema di welfare pubblico. Tutto questo vincola al ribasso anche le risorse che possono essere investite sulle nuove generazioni, in particolare sulla formazione, sugli strumenti di transizione scuola-lavoro, sull’autonomia e formazione di una propria famiglia. Sempre più giovani preferiranno spostarsi nel primo paese, che può fornire migliori opportunità di realizzazione sia professionale che di vita. Di fronte a squilibri demografici che aumentano, la stessa immigrazione diventa una leva sempre più debole: una realtà che non offre adeguate condizioni di valorizzazione e di sostegno progettuale agli autoctoni difficilmente diventa attrattivo per giovani dinamici e qualificati dall’estero, i quali tenderanno piuttosto a scegliere il primo paese. In un contesto di questo tipo rischiano di aumentare anche tensioni e diseguaglianze sociali, rendendo più instabile anche il quadro politico.
L’Italia è tra le economie mature più vicine a trovarsi intrappolate in uno scenario di questo tipo. Gli indicatori demografici e relativi alla condizione dei giovani (in combinazione con quelli che misurano le diseguagliane sociali e di genere), sono da troppo tempo tra i peggiori in Europa.
Non si intravedono tutt’ora segnali oggettivi di inversione di tendenza. Sappiamo che il Piano nazionale di ripresa e resilienza (pnrr) va nella direzione giusta, ma ha due limiti. Il primo di impostazione e sta nel fatto di non riconoscere esplicitamente gli squilibri demografici come una delle sfide principali che l’Italia deve affrontare. Il secondo è che non pone obiettivi ambiziosi commisurati all’azione necessaria per rimettere strutturalmente nella giusta strada il paese prima che sia troppo tardi per evitare di trovarsi intrappolati nel destino peggiore tra i due sopra descritti. Tra tali obiettivi ve ne sono due cruciali, senza i quali anche tutte le altre azioni per uno sviluppo competitivo contenute nel Pnrr rischiano di avere una base debole. In particolare, non possiamo non chiederci: c’è l’impegno del Governo a mettere in campo tutto quanto è necessario per dimezzare entro questo decennio la percentuale di Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) e aumentare del 50 percento il numero medio di figli per donna? E’ facile dimostrare che senza raggiungere tali livelli non si cambia il destino di questo paese risollevandolo dalla situazione compromessa in cui si trova.