Non si possono discutere le strategie competitive e analizzare gli scenari geopolitici, economici, tecnologici e sociali ignorando la sfida che pone la demografia. Una chiara testimonianza di questa consapevolezza arriva dal Forum Ambrosetti, in corso in questi giorni a Cernobbio, dove il tema è messo in programma e con l’occasione viene anche presentato un esteso report dal titolo “Rinascita Italia. Come invertire il trend demografico a beneficio del futuro del Paese”.
Il report parte dal riconoscimento che “Il fenomeno della decrescita demografica, seppur ampiamente dibattuto, non sembra intraprendere ancora una concreta strada verso una sua soluzione. Il rischio che il Paese corre non è da sottovalutare, sia da un punto di vista sociale che culturale ed economico”.
La ricerca costituisce un’importante occasione per fare il punto sulle dinamiche in corso, porre in evidenza le conseguenze “nel caso in cui non si invertisse il trend demografico”, mettere a confronto le politiche adottate in altri paesi e valutare quali “azioni concrete e percorribili” possono essere indicate per una “rinascita dell’Italia” che abbia come base una ripresa delle nascite in Italia.
L’analisi parte dalla constatazione che la transizione demografica ha alla base un cambiamento positivo, quello della riduzione dei rischi di morte in età prematura e la possibilità di arrivare in buona salute in età anziana.
Se si mettono a confronto la durata di vita dei vari paesi e il tasso di natalità si trova una relazione negativa. Questo può indurre a pensare che il benessere materiale incida negativamente sull’andamento delle nascite. In realtà ci sono vari elementi da prendere in considerazione per interpretare la bassa fecondità dei paesi più ricchi. Il più rilevante è il fatto che la transizione demografica ha avuto inizio nei paesi europei e nel Nord America. Nel suo sviluppo la transizione sposta il livello di equilibrio nel rapporto tra generazioni da un numero medio di figli per donna attorno (o superiore) a cinque a un valore attorno (o inferiore) a due. Quando, infatti, la probabilità che un nuovo nato arrivi alla stessa età dei genitori sale da meno dello 0,5 a circa 1, bastano in media due figli per garantire quello che tecnicamente è chiamato “rimpiazzo generazionale”. Questo passaggio è già acquisito nei paesi occidentali ma si sta ancora compiendo, con ritmi e tempi differenziati, in altre aree del mondo (situate, in particolare, in Asia e Africa). Queste ultime aree si trovano, pertanto, con livelli più elevati, di fecondità rispetto ai paesi più ricchi.
C’è però anche un secondo aspetto, legato a caratteristiche e stili di vita. La transizione demografica non comporta solo un cambiamento quantitativo: avere figli diventa una “scelta” non scontata sulla quale pesa – a parità di preferenze sulla famiglia ideale – sia l’investimento sulle loro prospettive di crescita e il loro futuro, sia la possibilità di conciliare tempi di vita e lavoro.
E’ allora interessante osservare che se ci si concentra su questi paesi, ovvero su quelli nell’ultima fase del processo di transizione (tasso di fecondità sceso attorno o inferiore a due), la relazione tra ricchezza economica e numero medio di figli non risulta più negativa. Tende, semmai, a ribaltarsi. Ad esempio, nell’Europa occidentale troviamo Svezia e Francia con valori più vicini a due e Italia, Spagna, Grecia con valori più vicini a 1. Questa differenza non è certo imputabile ad un maggior valore assegnato alla famiglia e a preferenze più elevate sul numero di figli, chiama piuttosto in causa le condizioni in cui si trovano le coppie nel realizzare tali preferenze.
Nei paesi più ricchi la scelta di avere figli è, in effetti, diventata generalmente più debole e risulta in competizione con altri aspetti della realizzazione personale. Ma è anche vero che nei contesti in cui giovani e donne trovano maggior difficoltà nei loro percorsi lavorativi, meno opportunità di valorizzazione professionale, più incertezza riguardo al proprio futuro, la scelta di avere figli viene più facilmente lasciata in sospeso: si osserva, in particolare, un maggior rinvio del momento in cui ci si sente pronti per avere un figlio e un più ampio divario tra famiglia ideale ed effettivamente realizzata. Questo quadro empirico emerge in modo ben documentato nel Rapporto Ambrosetti.
Va però anche sottolineato che politiche familiari deboli e frammentate non solo non aiutano a realizzare i progetti di vita desiderati, ma veicolano implicitamente anche il messaggio che la scelta di avere figli non è considerata un valore collettivo – sulla quale tutta la società investe (come scommessa sul proprio futuro e impegno a renderla vincente) – ma lasciata essere soprattutto un costo e una complicazione individuale.
Mettere in campo politiche solide e continuative, analogamente a quanto fatto in molti altri paesi con cui ci confrontiamo, consente sia di migliorare le condizioni che agiscono sul processo decisionale riproduttivo, sia di fornire un contesto culturale favorevole, oltre che di ridurre lo svantaggio delle famiglie con figli e poter meglio investire sulla loro crescita e sul loro sviluppo. Ovvero: si favorisce una effettiva possibilità di scegliere (anziché trovarsi di fronte ad un aut aut tra lavoro e figli), si mettono i giovani nella condizione di assumere decisioni responsabili e impegnative, si rende meno debole la presenza quantitativa e qualitativa delle generazioni future.
I dati mostrano che nessuna economia matura avanzata riesce a mantenere un tasso di fecondità non troppo sotto il rimpiazzo generazionale senza misure mirate e continuamente aggiornate a sostegno della scelta di avere figli. I paesi che hanno agito più efficacemente in tale direzione hanno maggior possibilità di rispondere all’aumento della longevità e alla crescita della componente anziana investendo sulla qualità della vita in età avanzata e assicurando sostenibilità al sistema previdenziale e sanitario, grazie a una popolazione in età attiva che si mantiene stabile o diminuisce moderatamente.
I paesi, invece, come l’Italia, con nascite in continua diminuzione, si troveranno con crescente difficoltà a garantire un adeguato sistema di welfare, sia perché crolla la forza lavoro potenziale sia perché, in modo del tutto analogo, si riduce la forza generativa potenziale, ovvero la dimensione delle coorti che entrano nell’età in cui si formano nuovi nuclei familiari e si hanno figli.
Varie e dettagliate sono le proposte contenute nella parte finale del Rapporto. I fronti sono sostanzialmente tre, nessuno di per sé sufficiente per vincere la sfida e sui quali è necessario quindi agire in modo sinergico: il ruolo dell’immigrazione, la gestione degli squilibri (rendendo più efficiente la forza lavoro), l’inversione di tendenza delle nascite. A fronte di questo quadro le misure sinora adottate continuano ad apparire drammaticamente deboli e lontane dalle migliori esperienze europee.