Le politiche migliori per i giovani sono quelle che li aiutano a smettere di essere giovani. In Italia abbiamo pochi giovani, come ben noto, che però rimangono giovani troppo a lungo. Arrivare con successo alla fine degli studi, trovare lavoro, sostenere i costi di una abitazione (accedere a un mutuo), avviare una propria attività, più che nel resto d’Europa dipende dalle risorse della famiglia di origine e meno da politiche che si rivolgono direttamente ad essi come cittadini in senso proprio. I giovani italiani si trovano, così, ad essere maggiormente e più a lungo a carico della ricchezza privata accumulata in passato dai genitori, anziché messi nella condizione di generare nuova ricchezza e rafforzare il benessere collettivo.
A vivere ancora nella famiglia di origine nella fascia d’età 25-29 sono circa due su tre nel nostro paese contro meno di uno su dieci nei paesi scandinavi. Il record di NEET (under 30 che non studiano e non lavorano) che ci caratterizza nel quadro europeo deriva proprio dalla combinazione tra più prolungato aiuto dei genitori e minori strumenti offerti attraverso efficienti politiche attive. Le difficoltà nella transizione scuola-lavoro e un contesto sociale che dà per scontato che i giovani possano rimanere dipendenti dalla famiglia di origine sin oltre in 30 anni produce ripercussioni negative su tutto il percorso di transizione alla vita adulta. L’Italia, in coerenza con ciò, è anche il paese in Europa con crollo maggiore delle nascite da coppie under 30.
Abbiamo, insomma, bisogno di accelerare un cambiamento culturale che responsabilizzi i giovani stessi e li renda meno figli e più cittadini attivi, sperimentandosi con successo in tale ruolo il prima possibile. Anticipare il voto a 16 anni, quantomeno alle elezioni amministrative, va in questa direzione. Lo Ius culturae consentirebbe alle seconde generazioni di immigrati di ottenere la cittadinanza in base a quello che sono, che fanno e vogliono diventare, non in funzione delle caratteristiche e della condizione dei genitori. L’assegno unico e universale ha alla base il principio di riconoscere una condivisione collettiva dell’investimento sulla crescita e lo sviluppo umano di ciascun nato, peccato però che la base universale rimanga molto bassa.
Il bonus cultura per i diciottenni ottenibile attraverso 18App è un segnale concreto dato dalla collettività verso chi entra nella maggiore età. Va considerato un investimento su ciò che favorisce la conoscenza critica del mondo in cui i nuovi maggiorenni sono chiamati a costruire la propria identità adulta, ma anche un incentivo a considerarsi soggetti autonomi nel fare le proprie scelte. Un’indagine condotta da Ipsos per l’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo a cinque anni dall’entrata in vigore di 18App evidenzia che si tratta della misura rivolta ai giovani più popolare, con oltre due under 25 su tre che la considerano efficace.
Dovremmo rafforzare e allargare gli investimenti che aiutano a sperimentarsi ed essere riconosciuti come soggetti attivi in grado di prendere decisioni responsabili. Indebolire questa impostazione – come orientato a fare il Governo condizionando il bonus cultura al reddito della famiglia di origine – andrebbe a confermare ulteriormente che siamo un paese in cui è scontato considerare i giovani come figli dipendenti dai genitori e che le politiche servano solo per compensare i casi in cui tale dipendenza non è economicamente solida. Il difetto delle politiche familiari e per le nuove generazioni di questo paese sta proprio nella debole parte universale e, coerentemente con ciò, nell’essere intese quasi esclusivamente in termini di contrasto alla povertà. Non riusciamo ad uscire dalla logica del welfare pubblico in chiave assistenzialista e farlo evolvere in solido investimento sociale.
La debolezza e l’incertezza che caratterizzano gli strumenti a favore dei giovani cittadini non possono che alimentare il senso di sfiducia verso la politica e la diffidenza verso le istituzioni. Di conseguenza va a consolidarsi ancor più l’idea di dover fare affidamento, il più possibile, alla famiglia di origine, unica certezza su cui contare (con il vincolo di tenersi buoni i genitori). Ma così si consolida anche la convinzione che l’unica vera scelta autonoma di cambiamento responsabilizzante sia quella di andare all’estero.
Sempre i dati dell’Osservatorio giovani, provenienti da un’indagine realizzata nel primo mese di attività del nuovo Governo, confermano il basso credito verso tutte le forze politiche. La campagna elettorale non è stata entusiasmante. Alcuni messaggi denotavano un chiaro approccio paternalistico (con slogan dei partiti in cui i giovani erano indicati come “i nostri figli”, escludendoli implicitamente dal ruolo di diretti interlocutori). Gran parte del risultato deludente del Partito democratico si deve alla scarsa presa sull’elettorato giovanile, pur essendo vicino ad alcuni temi particolarmente sentiti dalle nuove generazioni. Una riflessione seria sui motivi andrebbe fatta dai candidati alla segreteria.
Se la fiducia verso le forze politiche in generale non arriva al 30 percento, il Governo si posiziona solo poco sopra con un valore pari circa al 35 percento (voto 6 o più in una scala da 1 a 10). I margini per recuperare però ci sono: è attorno al 20 percento chi ha assegnato 5 come voto. Ma se i fatti non faranno la differenza andrà a consolidarsi ulteriormente la diffidenza.
Dal punto di vista dei partiti, l’indagine evidenzia come due terzi degli intervistati affermi che se la politica italiana offrisse vero spazio per giovani che vogliono impegnarsi ciò aumenterebbe la loro partecipazione e azione. Dire che i giovani sono disinteressati è un alibi, ma è anche vero che senza strumenti per orientare in modo solido le proprie scelte e poter contare aumentano frustrazione e disimpegno. Non rafforzare la partecipazione attiva delle nuove generazioni significa anche tradire lo spirito del Piano Next Generation Eu e fare un cattivo uso delle risorse messe a disposizione.
Riguardo al Governo, in attesa di vedere in concreto l’operato, l’atteggiamento di fondo degli intervistati è comunque molto pragmatico. Oltre ai temi dei diritti e dell’ambiente, che hanno maggiormente incontrato l’attenzione dei ventenni nella campagna elettorale, le priorità verso cui si aspettano di vedere un’azione convincente dell’attuale Esecutivo sono i problemi energetici, il peso della busta paga e gli sgravi fiscali, l’occupazione giovanile.
Hanno, anche, sempre più chiara la consapevolezza che le politiche che vanno incontro alle loro istanze e migliorano la loro condizione siano quelle che maggiormente mettono assieme il benessere delle famiglie e le esigenze di sviluppo delle aziende. Non c’è, del resto, alcun strategico indicatore economico, sociale e demografico che non tenda a migliorare in un territorio in cui i giovani sono incoraggiati a diventare autonomi nei tempi e nei modi giusti dalla famiglia di origine, a farsi strada contando sulle proprie capacità e competenze, a essere intraprendenti generando valore con la propria novità nei contesti sociali e produttivi in cui operano.
In un paese in cui i giovani sono sempre di meno l’investimento sugli strumenti che migliorano la conoscenza del mondo che cambia e la capacità di agire in modo responsabile al suo interno, non possono essere rimessi in discussione ma continuamente rafforzati con ogni nuovo governo e in ogni nuovo anno.