Le dinamiche demografiche italiane, in assenza di adeguati correttivi, stanno spostando il paese verso un progressivo indebolimento del ruolo delle nuove generazioni nei processi di sviluppo e nelle scelte collettive. La conseguenza, per i giovani, è la percezione di non riuscire ad incidere sul futuro a partire dalle scelte di oggi e il timore di doversi adattare a un paese in cui sempre meno si riconoscono.
Chi ha meno di trent’anni ha trascorso tutta la propria esistenza in un paese con debito pubblico superiore al prodotto interno lordo. Un peso molto più gravoso rispetto sia alle generazioni precedenti sia ai coetanei del resto d’Europa. Si trova, inoltre, a vivere in un paese con domanda di spesa pubblica per la componente anziana destinata notevolmente ad aumentare mentre la popolazione in età attiva è in progressiva riduzione. Uno squilibrio anche questo inedito e più accentuato rispetto alle altre economie mature avanzate. Va aggiunto che gli attuali under 30 rappresentano la prima generazione formata e cresciuta nel XXI secolo e quindi pienamente chiamata a interpretarne le sfide, a partire dalla transizione verde e digitale.
Tutto questo impone ancor più che in passato di mettere le nuove generazioni al centro dei processi di crescita del paese, a farle sentire coinvolte nelle scelte strategiche per ripensare il modello sociale e di sviluppo in coerenza con i mutamenti in atto. Ed è proprio questo ruolo che manca e che i giovani in Italia sentono di non veder riconosciuto. La conseguenza è una combinazione di debolezza delle condizioni del presente e di carenza di prospettive verso il futuro, che si intreccia con le diseguaglianze di genere, sociali e territoriali. Difficile non sentirsi la generazione più penalizzata tra le nate nel secondo dopoguerra. Non tanto per i livelli di benessere da cui si parte, ma per le condizioni per generare nuovo benessere con il proprio impegno e le proprie capacità.
La carenza di investimenti sulla formazione di base e professionale, sull’orientamento, sulle politiche attive per l’incontro efficiente tra domande e offerta, sulla riqualificazione e l’aggiornamento continuo, su ricerca, sviluppo e innovazione, hanno esposto maggiormente i giovani italiani, rispetto al resto d’Europa, al rischio di diventare Neet (gli under 30 che non studiano e non lavorano). A confermarlo con dati e analisi aggiornate sono il “Rapporto sulle libere professioni in Italia” e il “Rapporto Censis 2023”, presentati entrambi al CNEL in questi giorni.
Quello che più è mancato all’Italia negli ultimi decenni è il contributo qualificato che le nuove generazioni possono dare alla crescita inclusiva e sostenibile del paese. Se le aziende e le organizzazioni faticano sempre più a trovare giovani, con le competenze necessarie, è perché maggiormente il paese si è disinteressato della loro diminuzione quantitativa e della loro preparazione qualitativa. Se i giovani ben formati faticano a trovare lavoro è perché risulta più bassa la capacità attrattiva delle imprese italiane e inferiore negli altri paesi l’attenzione alla valorizzazione del loro specifico capitale umano. Al di là dei livelli attuali di disoccupazione e sottoccupazione, ciò che pesa è il non sentirsi inseriti in processi di crescita individuali e collettivi, ossia inclusi in un contesto che consenta davvero di giocarsela e dimostrare quanto si vale. Il timore di intrappolamento in percorsi di basso sviluppo professionale ha reso i giovani italiani, anche quelli meglio preparati, ipercauti e diffidenti.
L’Italia continua ad essere avvitata in una perversa spirale di degiovanimento quantitativo (meno giovani) e qualitativo (meno investimento e valorizzazione). Questo ha portato negli ultimi anni a consolidarsi la percezione dei giovani italiani di vivere in un paese non impegnato a crescere con loro, che non li mette nelle condizioni di contare e fare la differenza nella costruzione del futuro collettivo.
Ma a lungo andare il disinvestimento del Paese sui giovani diventa un boomerang. Non solo perché senza rinnovo generazionale qualsiasi collettività è destinata al declino, ma anche perché ad un certo punto sempre più giovani rinunceranno ad investire sul Paese.
Un trentenne che dopo aver studiato non trova un impiego che lo metta nella condizione di dare il meglio di sé con adeguato riconoscimento (non solo in termini di salario), tenderà a fare il minimo o a lasciare. Si indeboliranno la scelta di aver figli, la scelta di investire sulla formazione da parte delle generazioni ancora più giovani, la scelta di partecipazione sociale e politica. Aumenterà, per converso, la scelta di andare all’estero. Su tutti questi aspetti tra loro intrecciati, come indicano i dati Istat ripresi dal Censis, stentano ad intravedersi solidi segnali di miglioramento. Nel frattempo anche il debito pubblico e gli squilibri demografici sono aumentati. Ma senza un rafforzamento del ruolo delle nuove generazioni – nell’economia e nella demografia italiana attraverso la loro realizzazione professionale e di vita – come possono tali indicatori migliorare? Ecco allora che se qualche anno fa i giovani italiani si chiedevano “se andarsene” ora la domanda che si pongono è “se rimanere”. Non sono più le difficoltà oggettive riscontrate che portano a lasciare, ma la mancanza di un progetto-paese in cui riconoscersi.
Se l’Italia entrata nella terza decade del XXI secolo appare un paese fermo, con difficoltà a crescere e timoroso verso il futuro, è perché il contributo dei giovani ai processi di cambiamento è diventato negli ultimi decenni sempre più debole. Metterli nelle condizioni di immaginare un futuro diverso con opportunità concrete di realizzazione è la principale operazione che il sistema paese deve fare se non vuole perdere un’intera generazione. Non è tanto una questione di generosità nei confronti dei giovani, è tutta la collettività che beneficia della possibilità che l’entrata nella vita adulta si compia in modo solido e con successo.