I diritti sono solo retorica senza una cultura della “diversità”

Abbiamo bisogno di costruire una società in cui nessuno è autorizzato a sentirsi più uguale degli altri ma nella quale tutti si sentono ugualmente ingaggiati nel reciproco impegno del “comprendersi”, non solo per migliorare conoscenza e convivenza ma anche per contaminarsi con stimoli, idee, diversi punti di vista, e rafforzare così la propria capacità di stare e fare assieme nel mondo.

Nel secolo scorso l’Europa ha imparato una grande lezione. A proprie spese ha verificato che è una follia pensare di formare una popolazione chiusa e “pura” in cui è sterilizzata la presenza dell’altro e sono eliminate le diversità. In questa settimana della memoria è bello e confortante vedere quanti eventi coinvolgenti e culturalmente densi Milano riesce ad organizzare e come alta sia la partecipazione civile. Tener vivo il ricordo però non basta è necessario costruire una “società diversa”. Una società non solo in grado di tollerare la diversità ma di considerarla un valore. Se il secolo passato è stato quello in cui abbiamo imparato a riconoscere i diritti degli altri, a vederli uguali a noi, in questo dovremmo invece imparare a riconoscere che il loro essere diversi da noi è una ricchezza. Diversità e diseguaglianze non devono essere più sinonimi. Ed è anzi vero che il maggior successo nella riduzione delle discriminazioni lo si ottiene quando si considera la diversità stessa un bene comune da valorizzare. Abbiamo bisogno di costruire una società in cui nessuno è autorizzato a sentirsi più uguale degli altri ma nella quale tutti si sentono ugualmente ingaggiati nel reciproco impegno del “comprendersi”, non solo per migliorare conoscenza e convivenza ma anche per contaminarsi con stimoli, idee, diversi punti di vista, e rafforzare così la propria capacità di stare e fare assieme nel mondo.

La diversità non è infatti solo una condizione statica, come vale per i diritti, ma va letta anche in una prospettiva dinamica. Nell’universo non esistono due cose identiche, come osservava Leibnitz, ma è altrettanto vero che nessuna cosa è esattamente uguale a se stessa in due diversi punti del tempo. Questo ancor più vale per le persone, le quali cambiano in un mondo che cambia. Il timore del diverso e la resistenza verso il cambiamento hanno quindi una comune radice. Alla base sta l’atavica difficoltà di gestire l’incertezza nel mettersi a confronto con il diverso e aprirsi al nuovo, dando più peso ai rischi che si possono incontrare che alle opportunità che si possono creare. Mettere in relazione positiva e progettuale noi con gli altri e il noi di oggi con il noi di domani fa allora parte della stessa sfida. Una sfida avvincente ma mai scontata e dall’esito sempre incerto. Come ci ricorda Todorov, la modernità ci ha consegnato l’inquietante responsabilità dell’autodeterminazione del nostro destino individuale e collettivo, con tutte le implicazioni che ne derivano. Ad orientarci non è più la rigida tradizione ma la cultura aperta, che è in divenire e che si arricchisce con il confronto, capace di produrre allo stesso tempo conoscenza e valore.

Questa cultura della diversità che riduce le diseguaglianze, aiuta a crescere e migliora la capacità di raggiungere obiettivi comuni è ancora molto carente nelle nostre scuole, nelle aziende italiane, nei centri di ricerca nazionali, oltre che ancora molto lontana dalla nostra politica. Eppure dove è davvero presente, come documentano molte ricerche, migliora la formazione, aumenta la produttività e stimola l’innovazione.

Milano può diventare una delle punte più avanzate di questo processo culturale, ma solo se sarà in grado di fare il salto di qualità che dalla statica comparata dei diritti da concedere porta alla dinamica evolutiva delle diversità da valorizzare.

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