Bambini perduti. Lo sciopero dei figli contro la natalità zero

Dopo aver toccato il record negativo di nascite nel 2013, averlo battuto nel 2014, essere scesi ulteriormente nel 2015, essere precipitati ancor più sotto nel 2016, cosa deve ancora succedere per decidere di cambiare rotta?

La Terza Conferenza nazionale della famiglia, tenuta a Roma il 28-29 settembre scorso, non rimarrà alla storia come punto di svolta delle politiche familiari in Italia. Si sono sentite buone intenzioni, tanta retorica, ma impegni precisi e incisivi pochi e in ordine sparso. Dopo aver toccato il record negativo di nascite nel 2013, averlo battuto nel 2014, essere scesi ulteriormente nel 2015, essere precipitati ancor più sotto nel 2016, cosa deve ancora succedere per decidere di cambiare rotta? Cosa manca per capire che senza mettere in relazione virtuosa scelte di formazione della famiglia, occupazione femminile, benessere infantile, non possiamo tornare a crescere in modo solido e creiamo, anzi, squilibri che diventano costi futuri?


Dobbiamo forse aspettare che scenda a zero la natalità, in un paese che si mobilita solo davanti alle emergenze? Un forte segnale potrebbe allora arrivare da un clamoroso sciopero delle nascite. Rinunciare ad avere figli per un anno intero sarebbe eccessivo, ma molto più praticabile l’idea di rimanere riproduttivamente fermi un mese. Un vuoto di nascite sarebbe un fatto del tutto inedito e di grande impatto, quantomeno simbolico.
La situazione oggi è, del resto, ancora peggiore rispetto a dieci anni fa, quando si è celebrata la Prima Conferenza nazionale della famiglia. La crisi economica ha congelato le decisioni di coppie che oramai hanno superato i 35 anni. Per evitare che il rinvio diventi rinuncia definitiva è necessario dare subito un segnale forte di supporto a chi decide di mettere al mondo un figlio. Assieme ad azioni di immediato riscontro va nel contempo messo in atto un solido processo di rafforzamento strutturale delle politiche familiari in grado di ridurre l’incertezza verso il futuro. Le carenze del nostro Paese da colmare sono particolarmente evidenti su tre fronti: gli strumenti che consentono ai giovani di non rinviare troppo autonomia e formazione di una unione di coppia; un sistema fiscale meno svantaggioso per le famiglie con figli, fondato sull’idea che i bambini sono un investimento sociale e non solo un costo privato; misure solide per una migliore armonizzazione tra lavoro e famiglia.
La denatalità se persistente nel tempo, come accade all’Italia, va a ridurre l’asse portante della vita riproduttiva e attiva del paese, accentuando ancor più il declino demografico e indebolendo la crescita economica. Nei prossimi quindici anni perderemo quasi 1,5 milioni di under 25 e oltre 4 milioni tra i 25 e i 55 anni, mentre crescerà di oltre 3 milioni la popolazione over 65. La Germania, che ha un problema di denatalità (quindi anche di invecchiamento) simile al nostro, proprio durante la crisi ha deciso di investire in modo massiccio sui servizi per l’infanzia, producendo in pochi anni una convergenza verso i valori medi europei. In Italia, che si fosse in periodo di crescita o di crisi, con esecutivi di destra, di sinistra o tecnici, non sono mai arrivate politiche strutturali e incisive a favore delle famiglie. Una classe politica abituata a calibrare le proprie azioni in funzione della prossima scadenza elettorale, come può prendersi carico del sostegno a scelte, come quella di un figlio, che impegnano a ben più lungo termine?
Serve allora davvero uno scuotimento dalle fondamenta. Nel 2012 i nati sono stati circa 40 mila nel mese più basso e 51 mila in quello più alto. Nel 2016 il massimo è sceso a 45 mila, ad agosto, e il minimo a 33 mila, ad aprile. Nell’ipotetico sciopero dei concepimenti a novembre 2017, agosto 2018 potrebbe diventare il simbolo dell’Italia che va a zero. E da lì si può solo risalire.

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