Nelle pagine conclusive di “Se questo è un uomo”, uno dei libri più utili per capire l’abisso della condizione umana, Primo Levi racconta gli ultimi giorni di vita ad Auschwitz. I nazisti, pressati dall’imminente arrivo delle truppe alleate, avevano evacuato il campo lasciando solo gli ammalati. Vari drammatici giorni di freddo, fame e stenti trascorsero prima dell’arrivo dei liberatori. Scrive l’autore: “Venne l’oscurità; di tutto il campo la nostra era l’unica camera munita di stufa, del che eravamo assai fieri. Molti malati di altre sezioni si accalcavano alla porta”. Quale fu la reazione? Non furono lasciati entrare, ma allontanati con fermezza e abbandonati al loro destino. Non c’era spazio per tutti. L’ingresso di altre persone avrebbe ridotto drasticamente le probabilità di sopravvivenza di chi si si era già stabilmente insediato nella camera e aveva contribuito a renderla più vivibile rispetto a tutte le altre.
Il timore rispetto agli arrivi dall’esterno nel proprio contesto di vita è del tutto naturale. Se non si parte da questa constatazione non si riesce a gestire un processo che non ha solo implicazioni per chi arriva ma ha anche ricadute su chi vive nel territorio di destinazione. Sbaglia quindi sia la politica che sottovaluta queste ricadute sia quella che si sofferma solo sulle paure e non va oltre. L’immigrazione straniera non è di per sé né necessariamente un male né incondizionatamente un bene. Non ha implicazioni né solo positive né solo negative. Il bilancio può essere più o meno favorevole in funzione di come la si interpreta e gestisce. E noi finora l’abbiamo sia interpretata che gestita maluccio. Le nostre dinamiche demografiche sono tali che senza immigrazione certamente non possiamo avere una crescita economica e sociale sostenibile. La persistente e accentuata riduzione delle nascite, fino ad al minimo storico del 2014, ha ridotto notevolmente le nuove generazioni. Questo significa che nei prossimi anni, rispetto agli altri paesi sviluppati, avremo più popolazione anziana inattiva e meno persone in età lavorativa. Milioni in meno di italiani che producono e pagano le tasse e milioni in più di pensionati e grandi anziani necessitanti di cura e assistenza.
Lo scenario a immigrazione zero non è quindi auspicabile perché significherebbe declino, non tanto demografico, ma sociale ed economico, ovvero peggioramento progressivo delle condizioni di vita. Questo però non è né lo scenario peggiore né quello più verosimile. Per la collocazione geografica dell’Italia, per le sue caratteristiche di società matura e per le trasformazioni che stanno vivendo i paesi in via di sviluppo, una politica di totale chiusura dei flussi di ingresso non è praticabile e porterebbe più che ad una riduzione quantitativa della popolazione straniera ad un aumento di quella “clandestina” e irregolare. Lo scenario peggiore e più verosimile è quello di un’immigrazione subìta e mal gestita in un paese non in grado di produrre sviluppo. In un territorio che non cresce e non promuovere inclusione ed espansione delle opportunità per tutti, si ingenera infatti una competizione verso il basso tra autoctoni e nuovi arrivati, con conseguente inasprimento delle tensioni sociali. C’è allora solo uno scenario desiderabile, quello che mette in relazione virtuosa immigrazione con crescita economica, sociale e culturale del paese.