Genitori si diventa, sia come madri che come padri. Alla base sta una scelta di coppia che dipende da condizioni oggettive e soggettive in mutamento nel tempo. Mentre il legame tra madre e figli è una costante della storia dell’umanità, il coinvolgimento del padre è invece un fenomeno recente e in piena evoluzione. Padri con bambino sul passeggino in centro città o che fanno jogging con figlio nel marsupio, non sono più un elemento raro e bizzarro del paesaggio urbano. Non è però ancora la norma. Molti freni culturali continuano ad essere presenti. Non si tratta di fare il ”mammo” ma di arricchire lo sviluppo relazionale dei figli con le specificità dell’accudimento e dell’interazione paterna, che migliora sia lo sviluppo del bambino sia l’esperienza genitoriale maschile.
Per favorire tale cambiamento abbiamo bisogno di un welfare nuovo, ma anche di rappresentazioni nuove, meno stereotipate della realtà. Gli indicatori stessi attraverso cui osserviamo il mondo che cambia vanno forse ripensati. In particolare, la misura della fecondità attraverso il numero medio di figli “per donna” risulta sempre più inadeguata e inappropriata. Asseconda, infatti, l’idea che i figli siano una questione di donne e che essi, quindi, vadano fatti corrispondere solo alle madri. C’è una ragione metodologica che lo giustifica: una nascita è il diretto e riconoscibile esito di un parto. Ma la vera natura del processo riproduttivo contempla due genitori. Un modo per superare l’interpretazione asimmetrica fornita da tale indicatore è quello di considerarlo come proxy (misura indiretta) del numero medio di figli “per coppia”. Dire che l’Italia ha una fecondità poco sopra 1,2 figli per coppia (anziché per donna) aiuta anche a interpretare meglio l’informazione che porta tale valore sulla distanza dalla soglia di equilibrio tra generazioni (che corrisponde alla media di 2 figli per 2 genitori).
Sul versante delle policy uno strumento per favorire il cambiamento culturale è il congedo di paternità interamente retribuito. Perché però definirlo “obbligatorio”? Non si tratta di imporlo ma di proporlo per i vantaggi estesi che ne derivano (sul rapporto tra padre e figli, sulla natalità, sull’occupazione femminile, sulla qualità del rapporto tra vita e lavoro che migliora anche la produttività) e favorendone in tale prospettiva un maggior utilizzo. In Italia la durata è quella minima indicata dall’Unione europea, pari a 10 giorni. L’estensione di cui c’è bisogno deve andare in due direzioni: avvicinare i padri alla durata delle madri, ma contestualmente anche mettere tutti i lavoratori nelle stesse condizioni di fruizione, indipendentemente da settore, dimensione dell’azienda e tipo di contratto.