La trascuratezza con cui in passato abbiamo gestito la questione demografica pone oggi il nostro Paese di fronte alla prospettiva di una drastica riduzione della popolazione attiva. Oltre al crescente carico della componente anziana (favorito dell’aumento della longevità), s’impone sempre più la necessità di far fronte anche all’indebolimento strutturale dell’offerta di forza lavoro (determinato dalla persistente denatalità). Un indebolimento che si candida a diventare il maggior vincolo alla crescita economica e alla sostenibilità sociale del Paese. Quanto esso diventerà grave dipende da due fattori interdipendenti, uno più quantitativo e l’altro più qualitativo.
Il primo corrisponde alla consistenza da cui parte ogni nuova generazione. Per lunga parte della storia del nostro Paese le solide coorti di trentenni, quarantenni e cinquantenni hanno dato solidità alla vita attiva del Paese, garantendo nel complesso – pur in presenza di limiti e contraddizioni nella formazione e valorizzazione del capitale umano – una sostanziale tenuta economica e sociale. L’accentuata e persistente denatalità sta però ora facendo sentire i suoi effetti su tali coorti, a partire da quelle più giovani. I dati Istat ci dicono che le attuali fasce d’età 50-59 e 40-49 presentano un ammontare a tutt’oggi ancora robusto (entrambe attorno ai 9 milioni e 300 mila), mentre quella dai 30 ai 39 anni risulta crollata su valori notevolmente più bassi (pari a circa 7 milioni).
Nei prossimi dieci anni vedremo una caduta analoga dei quarantenni e successivamente dei cinquantenni. Nel frattempo, però, i trentenni risulteranno ulteriormente scesi. Se quindi non si frena il continuo calo della natalità (inasprito anche dalle conseguenze dell’emergenza sanitaria) ogni nuova coorte lavorativa diventerà più debole della precedente, rendendo così via via meno potente il motore economico del Paese. Sarà come correre lungo questo secolo con una carrozza sempre più pesante trainata da un numero sempre minore di cavalli. Difficile, in tali condizioni, diventare vincenti a qualsiasi competizione decidiamo di partecipare.
La consistenza delle nuove generazioni, assieme al contributo integrativo che potrà arrivare dall’immigrazione, fa parte del futuro non ancora scritto e che può rendere meno grave il crollo della popolazione attiva. Ma tra le leve su cui il Paese può agire per evitare lo scenario peggiore c’è un secondo fattore che agisce sulla dimensione qualitativa. Si tratta del contributo che ciascuna generazione è messa in grado di offrire, strettamente legato ai percorsi formativi e professionali delle persone che vi appartengono. In Italia, più che negli altri Paesi con cui ci confrontiamo, maggiore è il guadagno in termini di occupazione che si potrebbe ottenere da una migliore formazione e da un più efficiente utilizzo del capitale umano. Attualmente la percentuale di laureati, il tasso di occupazione giovanile e la partecipazione femminile al mercato del lavoro sono posizionati tra i livelli più bassi in Europa. Un piano, quindi, che progressivamente riuscisse nei prossimi 15 anni a portare sulla media europea tali indicatori consentirebbe di mettere in campo un esercito di riserva senza eguali tra le economie avanzate, in grado di dare una spinta decisiva per le sorti del Paese.
Se, però, prima della pandemia tali indicatori mostravano segnali timidi e contradittori nella convergenza verso i valori propri delle realtà più virtuose e dinamiche d’Europa, l’impatto dell’emergenza sanitaria rischia di farci allontanare ulteriormente. Sul lato della formazione, i dati Eurostat mostrano come l’Italia presenti una delle più basse percentuali di 15enni con competenze considerate indispensabili per costruire percorsi solidi di vita e lavoro nel XXI secolo. La quota di ragazzi tra i 18 e i 24 anni che non hanno completato la scuola secondaria superiore è tra le più alte (sopra il 14%, con un target europeo da raggiungere entro il 2020 fissato sotto il 10%). Presentiamo, infine, una delle incidenze più basse di laureati (meno del 30% nella fascia 30-34 rispetto all’obiettivo europeo di salire, sempre entro 2020, oltre il 40%).
Il rischio di povertà educativa è in Italia fortemente legato alle caratteristiche della famiglia di origine e al contesto territoriale. Le evidenze attualmente disponibili sull’impatto dell’emergenza sanitaria sollevano una forte preoccupazione proprio sull’inasprimento delle diseguaglianze sociali, di breve e medio periodo, sul fronte delle opportunità formative. Istruzione debole e competenze carenti, in combinazione con le inefficienze dei canali formali di entrata nel mondo del lavoro, dei servizi di accompagnamento e riqualificazione, tengono vincolata verso il basso l’occupazione delle nuove generazioni, deprimendone il contributo qualificato ai processi di crescita del Paese. I primi dati sull’andamento del mercato del lavoro sono coerenti con queste preoccupazioni, evidenziando una diminuzione della forza lavoro giovanile attraverso una contrazione sia degli occupati sia di chi cerca lavoro.
Come ben noto l’Italia presenta anche un gender gap tra i più ampi nelle economie mature avanzate. La strada principale per superarlo è rafforzare, nella stessa misura per ragazze e ragazzi, la formazione nelle discipline scientifico-tecnologiche e le competenze digitali, assieme a misure di conciliazione tra famiglia e lavoro con condivisione delle attività di cura. Anche su questo fronte, invece, l’emergenza sanitaria sembra aver inasprito le differenze e in modo ancor più accentuato in Italia, come mostrano i dati dell’indagine Living, working and Covid-19 di Eurofound. La pandemia sembra aver reso ancor più debole la presenza e la valorizzazione del capitale umano femminile nel sistema produttivo.
Ci troviamo, insomma, con uno degli eserciti di riserva tra i più consistenti in Europa, ma che si sta allontanando ancor di più dal terreno di azione, senza che ci sia una chiara strategia in grado di ricompattarlo, fornirlo di strumenti adeguati, aiutarlo a convergere per tempo con le forze in campo e scongiurare il rischio di tracollo. Quello di cui abbiamo bisogno è soprattutto un piano solido e credibile che consenta agli attuali quindicenni di arrivare a 20 anni con una percentuale di early leaver mantenuta inferiore al 10%, di arrivare entro i 30 anni con oltre la metà in possesso della laurea, per poi trovarsi a 35 con una percentuale di chi ha formato una famiglia con figli (e rischio di povertà per tali famiglie) vicina alla media europea. Nel frattempo dobbiamo però anche chiederci quali risultati (personali e professionali) ci aspettiamo che gli attuali trentenni possano raggiungere a 45 anni e come favorire la possibilità di ottenerli; ma anche come ci aspettiamo saranno a 60 anni gli attuali 45enni, con quali condizioni lavorative e prospettive di carriera; infine, come valorizzare il contributo degli over 60 cogliendo le opportunità di una lunga vita (economica e sociale) attiva.
Prendere sul serio la demografia non significa solo (pre)occuparsi di come evolvono le componenti di età della popolazione, ma inserire una lettura dinamica di come ciascuna coorte affronta la fase della vita in cui si trova e come interpreta e imposta il proprio percorso successivo all’interno dei processi di produzione di valore individuale e collettivo. La migliore Italia del XXI secolo post Covid non può permettersi di rinunciare a questa visione prospettiva.