Ha ragione la ministra Fedeli quando dice che fermare la propria formazione a 16 anni – in un mondo sempre più complesso, in rapido cambiamento, con una vita lavorativa sempre più lunga e articolata – non è una scelta ottimale. Ma è l’obbligo imposto ai giovani a star di più sui banchi di scuola la soluzione ottimale? Una risposta la si può dare andando a vedere cosa fanno gli altri paesi europei. Si nota allora che solo un numero ristretto prevede l’obbligo scolastico fino ai 18 anni.
Non si tratta inoltre necessariamente dei Paesi più virtuosi in termini di qualità di formazione e opportunità di inserimento nel mondo del lavoro. Tra questi c’è anche il Portogallo, che presenta un tasso di abbandono scolastico solo poco più basso del nostro. La Svezia prevede, come noi, un obbligo fino ai 16 anni ma contiene il tasso di dispersione su livelli pari alla metà del nostro. Se è vero che in tutti i Paesi c’è una forte attenzione a far proseguire la formazione almeno fino ai 18 anni, l’obiettivo principale è però fare in modo che la preparazione ottenuta avvii ad una vita sociale e professionale di successo. La preoccupazione principale è, quindi, quella della riduzione degli abbandoni precoci e del potenziamento degli strumenti che favoriscono la transizione scuola-lavoro. La questione vera non è, infatti, tanto quella arrivare ai 18 anni (e poi chissà), ma di non interrompere un percorso continuo e crescente in cui si apprende, si migliorano conoscenze e competenze, si rafforza quanto si è appreso mettendosi alla prova con esperienze concrete, si orienta la propria preparazione rispetto agli obiettivi professionali, si svolge una attività lavorativa remunerata tenendosi aggiornati e al passo con il mondo che cambia.
Purtroppo l’Italia si trova ad essere uno dei paesi in Europa in cui il percorso di istruzione formale si interrompe più precocemente, ma anche uno di quelli in cui maggiore discontinuità si crea tra scuola e lavoro, con conseguente alto numero di giovani che dopo l’ottenimento del diploma o della laurea, si trova davanti un vuoto e precipita nella condizione di Neet (i giovani che non studiano e non lavorano). Sul tema dell’abbandono scolastico l’indicatore preso come riferimento in ambito europeo è l’Early school leaving (ESL), che corrisponde alla percentuale di persone tra i 18 e i 24 anni non andati oltre la scuola secondaria di primo grado (la licenza media per l’Italia). L’obiettivo fissato nella “Strategia Europa 2020” è scendere sotto il 10 percento. Mentre gran parte degli altri paesi membri sono già sotto tale soglia, l’Italia risulta ancora sensibilmente sopra. Va però riconosciuto che i progressi sono stati rilevanti negli ultimi anni. Siamo infatti scesi dal 20,4% del 2006 al 13,7% del 2016. Quello che deve preoccupare è la forte disparità territoriale e sociale del fenomeno. Se, infatti, alcune regioni centrosettentrionali presentano già oggi una incidenza inferiore al target fissato dalla Strategia 2020, Sud e Isole si trovano invece ancor oggi molto lontane. In particolare, nel Mezzogiorno oltre un giovane maschio su cinque possiede un livello di istruzione troppo basso, secondo gli standard europei, esponendosi così ad alto rischio di disoccupazione ed esclusione sociale. Non è un caso che proprio nelle regioni del Sud, oltre che nelle periferie delle grandi città, si tocchino livelli tra i più elevati di disoccupazione giovanile e disagio di tutta Europa.
Difficile pensare che l’obbligo di stare sui banchi di scuola fino ai 18 anni possa essere la soluzione in contesti di questo tipo, come non lo è una improvvisata alternanza scuola-lavoro. Oltre alla mancanza di stimoli e supporto, in molti casi la dispersione è anche legata alla necessità di svolgere un’attività remunerativa, che ripiega spesso nell’economia sommersa se non nella microcriminalità. Vanno offerte allora vere alternative, che consentano già dai 16 anni di svolgere un lavoro ma con forte e certificato investimento formativo. Una versione di questo approccio è il sistema duale tedesco, ma varie soluzioni sono possibili considerando anche le specificità della realtà italiana.
Più in generale il nostro Paese, come ben sa la ministra Fedeli, ha grande necessità di rafforzare tutto il processo di transizione scuola-lavoro, attraverso una collaborazione efficace tra sistema scolastico e sistema dei servizi per l’impiego. Le carenze su questo punto nevralgico, come documentano molte ricerche, portano ad un alto numero di giovani diplomati inattivi, da un lato, e aziende che cercano personale ma non lo trovano, dall’altro. Un investimento forte nella transizione scuola-lavoro è la scelta più utile ai giovani e al Paese che possiamo fare, perché migliora l’economia, riduce il costo sociale dei NEET, consente ai giovani di iniziare a mettere le basi per la realizzazione dei propri progetti di vita.