Viviamo in un mondo in grande mutamento. Una delle trasformazioni principali è quella demografica, con inedite implicazioni sul piano sociale, economico e anche politico. Per lunga parte della storia dell’umanità nascite e popolazione giovanile sono state abbondanti, ma alto era anche il rischio di morte prematura. Ancora all’epoca del primo censimento dell’Unità d’Italia il numero medio di figli per donna era attorno a cinque, circa un nato su quattro non arrivava al primo compleanno e solo una stretta minoranza riusciva a compiere tutto il percorso della vita adulta fino ad arrivare in età anziana. Ma ovunque si fosse nati nel mondo la situazione non era molto diversa. A metà del XIX secolo il paese con più alta aspettativa di vita era la Svezia con un valore attorno ai 40 anni. Mentre il livello più basso di fecondità era quello della Francia, sopra i tre figli e mezzo. Tali due paesi avevano all’epoca appena iniziato la transizione demografica.
Oggi il numero medio di figli per donna su tutto il pianeta è sotto 2,5 e la durata media di vita femminile è ormai vicina ai 75 anni. Insomma, in poche generazioni la vita umana è completamente cambiata. Le grandi differenze che ora vediamo nel mondo su questi indicatori sono dovute ai diversi tempi e alle diverse modalità della realizzazione della transizione demografica, che si intrecciano con la cultura, le specificità del territorio, le condizioni sociali, le possibilità di sviluppo economico. Si va dall’area dell’Africa sub-sahariana che presenta livelli di mortalità infantile ancora elevati e un tasso di fecondità superiore a cinque, ai paesi europei e altre economie avanzate, in cui l’aspettativa di vita femminile arriva a superare gli 85 anni. La riduzione progressiva dei rischi di morte ha portato la popolazione a crescere a ritmi sostenuti, tanto che nel XX secolo gli abitanti del pianeta sono passati da 1,6 a 6,1 miliardi circa. Nello stesso secolo, pur con molte diseguaglianze e contraddizioni, le condizioni di vita sono complessivamente migliorate. Quasi ovunque nel mondo si vive oggi in migliori condizioni di alimentazione, salute, formazione, diritti sociali, rispetto ai primi decenni del secolo scorso. Ma non è scontato che continuerà ad essere così. I fattori che sono stati alla base dell’aumento del benessere materiale nel Novecento non sono gli stessi che possono favorire una crescita inclusiva e sostenibile nel secolo attuale.
Se è vero che la popolazione mondiale non cresce più ai ritmi sostenuti del secolo scorso, in questo secolo la demografia pone in ogni caso quattro sfide: non siamo mai stati così tanti sul pianeta (agli oltre 7,5 miliardi attuali se ne aggiungeranno almeno altri due entro la metà del secolo); la rapidità di crescita demografica non è mai stata così differenziata tra i vari continenti, in particolare con Africa in grande incremento ed Europa in declino; ad aumentare è soprattutto la popolazione anziana, in particolare nei paesi più sviluppati; non è mai stato così elevato il numero di persone che vivono in un paese diverso da quello in cui sono nate. Quest’ultimo numero è stimato dalle Nazioni Unite essere attualmente superiore ai duecentocinquanta milioni.
Queste quattro sfide si intrecciano con quella del ruolo delle grandi città. Dalla rivoluzione del Neolitico in poi le città sono da sempre al centro del cambiamento. Le maggiori discontinuità e rivoluzioni nella storia dell’uomo hanno di fatto sempre avuto le città come protagoniste. Dal punto di vista demografico gli abitanti delle aree rurali sono però stati la parte nettamente prevalente della popolazione totale. Ancora nel 1950, quando le uniche metropoli del mondo sopra i 10 milioni di abitanti erano New York e Tokyo, viveva nelle città meno di un terzo degli abitanti del pianeta. Solo nel primo decennio di questo secolo la popolazione urbana è diventata prevalente ed entro la metà del secolo potrebbero abitare in città due abitanti del pianeta su tre.
Se quindi la popolazione mondiale continuerà a crescere in questo secolo, ciò avverrà soprattutto all’interno delle grandi città con le loro grandi opportunità e grandi contraddizioni. La misura in cui si potranno imporre nuovi modelli di sviluppo intelligente, inclusivo e sostenibile dipenderà dall’innovazione sociale e tecnologica che si produrrà nelle metropoli del mondo, tra l’altro sempre più in collegamento di flusso di persone (idee e risorse) tra di loro al di là dei confini degli stati.
Anche la crescita differenziata sul territorio vede protagoniste le città, sia rispetto al ritmo di aumento demografico rispetto alle aree rurali, sia nel confronto tra le città stesse. Attualmente le aree più urbanizzate sono America (82%) ed Europa (74%), ma il 90% della crescita urbana nei prossimi decenni sarà concentrata in Asia ed Africa. Nella stessa Italia Milano e altre grandi città (come Firenze e Bologna) sono in tendenziale crescita in controtendenza con il dato nazionale, ma altre (come Napoli e Torino) sono in diminuzione.
Rispetto alla terza sfida, proprio nelle grandi città è maggiore l’invecchiamento della popolazione, soprattutto a causa delle bassa natalità. Tale processo è particolarmente accentuato in Europa e all’interno di tale continente l’Italia è tra i paesi con maggior peso della popolazione anziana. Secondo i dati Eurostat, l’Unione europea contava nel 2017 ben 12 città in Italia aventi tasso di dipendenza degli anziani (over 65 su popolazione attiva) superiore al 45%, seguiva la Germania con 8 città. Tra le capitali la più vecchia secondo tale indicatore è Lisbona (41%) seguita da Roma (36%).
È quindi importante, sulla spinta di tale processo, non solo adattarsi a trovare soluzioni adeguate all’aumento della presenza degli anziani e alle loro necessità, ma adottare un approccio orientato alla promozione del benessere in tutte le fasi della vita, che stimola interscambio e condivisione tra le diverse generazioni nell’ambiente di lavoro, nell’housing, nelle iniziative culturali.
Anche la quarta delle principali sfide che pone la demografia nel XXI secolo presenta un impatto maggiore nelle grandi città. Le realtà urbane attirano popolazione sia da zone rurali e centri minori, sia dall’estero. Tali flussi, da un lato, consentono alla popolazione urbana di crescere e, dall’altro, rendono meno accentuato il processo di invecchiamento. In Italia i residenti stranieri sono poco meno del 9% della popolazione (dato 2018), ma l’incidenza supera il 13% a Milano e Firenze, poco sotto si trovano Roma e Bologna.
Milano, in particolare, è un caso interessante di attrazione in Italia. Nel 2018 i 20-29enni risultano essere 134 mila ma sarebbero stati meno di 90 mila se tale generazione avesse mantenuto l’ammontare di dieci anni prima (quando aveva 10-19 anni). Ancor maggiore l’attrazione in età 30-39, che conta 186 mila residenti nel 2018, ma dieci anni prima, quando tale generazione aveva 20-29 anni, superava a malapena le 100 mila unità. Questo consente oggi a Milano di avere una popolazione giovane-adulta sensibilmente più consistente rispetto al resto del Paese, con conseguenze positive sulla vitalità sociale ed economica. Sempre meno però la popolazione che rende dinamica e vitale una città, partecipando in varia misura e con varie modalità allo sviluppo culturale ed economico, è quella formalmente residente all’interno dei confini amministrativi. L’idea di misurare dimensione demografica della città e pensare la pianificazione servizi solo sui residenti è ormai nei fatti superata.
Da un lato il governo delle politiche sociali e di sviluppo deve tener esplicitamente conto dei non residenti ma alloggiati a Milano, che elevano, secondo alcune stime, di circa il 10% la popolazione cittadina. A essi si aggiungono anche i city users nel senso più ampio (l’ordine di grandezza delle auto che entrano a Milano giornalmente è un milione): una componente di grande rilevanza che va ad incidere più che proporzionalmente sulle età giovani e giovani-adulte. Si pensi, in particolare, agli studenti universitari “fuori sede”, da intendere sia come una categoria di persone a cui far corrispondere servizi di qualità, sia come una ricchezza da valorizzare per il contributo che possono dare nel presente e nel futuro della città. Ma anche al capitale umano formato che poi si trasferisce all’estero, il quale deve poter essere valorizzato come capitale sociale del sistema-Milano nel mondo. Più che lo stock, del resto, contano sempre di più i flussi in questo secolo. Questo significa considerare parte del sistema-Milano tutte le persone che includono tale città tra i nodi della propria rete, ovunque siano nati e ovunque attualmente risiedano nel mondo (sviluppando quindi anche un senso di multi-appartenenza).
Le quattro sfide, viste dal lato delle città, si vincono agendo sia sul versante quantitativo che qualitativo. Il primo versante è importante soprattutto in relazione alla necessità di garantire adeguato rinnovo generazionale. Le città che crescono di meno sono quelle che combinano bassa fecondità e scarsi flussi in entrata, la conseguenza non è tanto e solo una diminuzione della consistenza demografica ma ancor più un accentuato invecchiamento della popolazione a cui corrispondono squilibri demografici che indeboliscono la possibilità di produrre benessere. Fare in modo che la natalità non scenda su valori troppo bassi e rafforzare la fascia giovane-adulta con politiche attrattive è quindi un aspetto strategico delle politiche di benessere delle città. Sulle dinamiche della fecondità e su alcuni aspetti dell’ingresso lavorativo dei giovani, ad esempio, rimane ampia la distanza tra tutte le grandi città italiane (Milano compresa) e le migliori esperienze europee.
Il fattore principale per la crescita nel XXI secolo è, in ogni caso, quello qualitativo, da cui dipende sempre più strettamente anche quello quantitativo. La qualità dei servizi per i cittadini, la qualità della formazione, la qualità dell’aria (e più in generale il rapporto con l’ambiente), la qualità delle relazioni, la qualità agli anni di una vita longeva, non sono un contorno positivo alla ricchezza e alla corrispondente quantità di produzione e consumo. Sono, al contrario, gli elementi qualificanti di una città che diventa sempre più attrattiva, crea un clima di aspettative positive, mette le persone nelle condizioni di contribuire ad arricchirla e renderla più dinamica e vitale con le proprie scelte professionali e personali/familiari. Non si può trattare però di una qualità accessibile solo per alcuni a scapito di altri. Deve quindi essere alimentata da un processo di sviluppo intelligente e inclusivo, in grado di tenere assieme efficienza e bellezza, innovazione e coesione sociale, crescita e sostenibilità.
Le città sono anche il luogo in cui più enfatizzato è l’impatto nella vita delle persone di due elementi caratterizzanti la modernità avanzata, ovvero la complessità e l’accelerazione del cambiamento sociale e tecnologico. Le risposte sperimentate espongono però a due rischi opposti. Il primo è quello di non riuscire a mettere i propri cittadini nelle condizioni di orientarsi e districarsi con successo all’interno di un sistema di rischi e opportunità che più che altrove è in continuo mutamento. Il secondo è invece quello di riuscirci, con la grande città che attrae e diventa punta avanzata dei processi più virtuosi di sviluppo in coerenza con le grandi trasformazioni in atto, mentre il resto territorio circostante si trova, in varia misura, impoverito e schiacciato in difesa.
La tensione verso il futuro in cui si inserisce la capacità di produrre nuovo benessere deve, in definitiva, inserirsi in una tripla dimensione di governo dei processi del presente: quella dell’inclusione rivolta a tutti i cittadini, con particolare attenzione alle categorie sociali e aree territoriali che si trovano in condizioni più svantaggiate; quella dell’integrazione virtuosa con il contesto regionale in cui la città è inserita; quella internazionale che prevede confronto e collaborazione continua con le realtà urbane più avanzate europee e mondiali.
Compito tutt’altro che facile, ma le città che ci riusciranno saranno i luoghi in cui accadranno le cose più interessanti e promettenti nei prossimi decenni.