Dalla demografia un dividendo per India e Africa

Il declino occidentale e la sfida della qualità

La demografia è una delle grandi forze di cambiamento del nostro tempo. Il suo ruolo è stato a lungo sottovalutato perché nel passato la popolazione tendeva a crescere molto lentamente e a mantenere una struttura stabile. Per gran parte della storia dell’umanità il funzionamento della società e dell’economia ha potuto contare su una larga base di giovani e relativamente pochi anziani. Del tutto nuova è, invece, la sfida di garantire sviluppo e benessere in un mondo in cui le nuove generazioni diventano una risorsa scarsa a fronte di un continuo aumento della componente più matura.

Questa sfida corrisponde alla terza fase dell’evoluzione della popolazione mondiale e risulta ancor più inedita e spiazzante per il fatto che la seconda fase ha accentuato alcuni aspetti del regime precedente, prima ancora che questi si trovassero profondamente messi in discussione.

La seconda fase corrisponde alla Transizione demografica: un processo unico della storia umana, innescato in Europa occidentale, che ha consentito di ridurre ai minimi termini i rischi di morte in età prematura e ha portato l’avere figli all’interno della sfera delle scelte. In questa fase si assiste al passaggio: da crescita lenta ad accelerata, da influenza locale a globale delle dinamiche della popolazione, da solida ad ancor più consistente incidenza della popolazione in età attiva. E’ il passaggio storico in cui la demografia ha offerto il suo maggior vantaggio competitivo al mondo occidentale, sia come capacità di produrre ricchezza che come peso nel quadro internazionale.

L’apice di questa fase si osserva nei primi decenni del secondo dopoguerra. Nel 1950 le città più popolate del pianeta si trovavano nei paesi occidentali, con forte presenza delle fasce giovani e adulte. Il “dividendo demografico” (ovvero il contributo della demografia alla crescita economica) diventa più favorevole, perché le generazioni che arrivano alle età produttive beneficiano nel loro percorso di minori rischi di morte rispetto alle precedenti, mentre l’incidenza della popolazione anziana è ancora moderata. La fecondità è più bassa rispetto ai livelli tradizionali, ma comunque su livelli che consentono un solido ricambio generazionale. E’ su questa demografia che i paesi occidentali hanno delineato l’infrastruttura del loro sistema di welfare.

Alla fine di questa seconda fase non si osserva però, come il termine “transizione” invita a pensare, il consolidamento su una nuova posizione di equilibrio con una aspettativa di vita posizionata stabilmente attorno ai 70-75 anni e una fecondità attorno a 2,1 (livello di equilibrio tra generazioni in regime di bassa mortalità). Si entra, invece, in una terza fase che, appunto, muta profondamente le basi dello sviluppo economico e del sistema sociale.

Questi cambiamenti diventano sempre più evidenti sul finire del XX secolo e nei primi decenni del XXI. Da un lato la longevità continua ad aumentare allargando sempre di più il vertice della piramide demografica, mentre va progressivamente ad erodersi la base a causa di una fecondità che scivola sotto il livello di rimpiazzo generazionale. Questo porta il mondo occidentale a perdere progressivamente il vantaggio del consistente peso relativo della componente attiva. Ma porta ad indebolire anche il suo peso sulla popolazione mondiale via via che il processo di Transizione demografica si allarga al resto del pianeta.

Se il secolo precedente è stato contrassegnato dall’esuberante espansione quantitativa, quello che caratterizza il XXI secolo è, invece, il percorso di rallentamento fino all’esaurimento della crescita e il possibile aprirsi di una fase di declino. La Cina stessa ha spostato il suo preponderante peso dal gruppo di paesi che alimentano la crescita mondiale a quelli avviati al declino. L’India, con una fecondità scesa attorno ai due figli per donna, continuerà ad aumentare per qualche decennio, in modo rallentato, solo per la spinta inerziale dell’ancora abbondante componente giovane.

I paesi con fecondità elevata sono sempre più concentrati nell’area dell’Africa sub-sahariana. Qui la sfida è agevolare il compimento del processo di transizione demografica in coerenza con un percorso di sviluppo che favorisca il passaggio dalla quantità dei figli all’investimento sulla qualità. Il Kenya è uno degli esempi più interessanti di paesi avviati in questa direzione.

Dalla preoccupazione per la crescita eccessiva la questione demografica è, insomma, destinata a spostarsi sempre di più verso le implicazioni del declino e, soprattutto, degli inediti squilibri nel rapporto tra vecchie e nuove generazioni (a sfavore di queste ultime). I precursori di questa terza fase verso cui va tutto il mondo, pur con tempi diversi, come abbiamo detto, sono i paesi del mondo occidentale.

Alcune linee di direzione, per sostenere processi di sviluppo e benessere nelle popolazioni che non crescono più – tendendo anzi al declino – ma in cui si vive sempre più a lungo, sono già chiare. La più scontata è quella della silver economy, ovvero della spinta che può arrivare dai consumi della sempre più abbondante popolazione anziana. Non ci si può limitare però a valorizzare la ricchezza passata accumulata. La questione centrale da porre è come generare nuova ricchezza, in un senso più ampio, a fronte di un peso relativo più ridotto della forza lavoro potenziale. La risposta principale è l’investimento sulla qualità della formazione e del lavoro, che consente un uso più efficiente della popolazione attiva (più occupazione e più produttività), anche con l’ausilio delle nuove tecnologie.

Ma l’investimento qualitativo rischia di diventare insufficiente e debole se la popolazione in età attiva continua a ridursi. E’ lo scenario verso cui rischiano di andare paesi come l’Italia che mantengono livelli di fecondità molto al di sotto del livello di equilibrio tra generazioni. Anche portando l’occupabilità delle nuove generazioni ai livelli della media europea si ottiene una più debole forza lavoro, quindi meno sviluppo economico, con risorse sempre più assorbite dalla popolazione anziana e meno possibilità di investire sulla formazione, sulle politiche attive, su ricerca, sviluppo e innovazione.

Detto in altre parole, la risposta deve essere soprattutto qualitativa per vincere le sfide che la demografia pone nella terza fase, ma lasciar crescere gli squilibri quantitativi vincola anche la qualità verso il basso. L’Italia è tra i paesi che si stanno maggiormente incaricando di dimostrarlo.

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