Crollo delle nascite. Un Paese senza figli e schiacciato in difesa

L’editoriale di Alessandro Rosina

Se vogliamo diventare in questo secolo uno dei Paesi demograficamente più squilibrati – con tutte le implicazione economiche e sociali che ne conseguono – i dati più recenti Istat ci dicono che siamo sulla strada giusta. La popolazione italiana non cresce più, è anzi oramai da cinque anni in continuo arretramento, conseguenza di un saldo migratorio che non riesce più a compensare il saldo naturale in rosso sempre più profondo.


La questione centrale non è però quanti siamo in valore assoluto, ma come muta il rapporto relativo tra le generazioni più giovani e quelle più anziane. È certamente positivo il fatto di vivere più a lungo. Su questo processo l’Italia non è una anomalia, presenta valori simili ai Paesi avanzati più virtuosi.

Ciò che alimenta in modo accentuato gli squilibri italiani è invece la persistente bassa natalità che rende ogni nuova generazione demograficamente più esile rispetto alle precedenti. Detto in altre parole, a fronte della crescita degli anziani, più degli altri Paesi l’Italia associa un indebolimento dei giovani, ovvero della componente a cui poter affidare crescita economica e sostenibilità del sistema di welfare. Che non vi sia alcuna inversione di tendenza in atto rispetto all’allargarsi degli squilibri demografici, lo evidenzia soprattutto l’andamento della fecondità.
Il numero medio di figli per donna è sceso, dopo gli anni più acuti della crisi, sui livelli più bassi in Europa e non accenna a risalire. Cosa lo ha fatto scendere così tanto e cosa frena la sua risalita? Alcune indicazioni interessanti si possono ottenere da due realtà con evoluzione positiva negli ultimi dieci anni.
Il primo caso è quello della Germania, che da livelli inferiori rispetto alla fecondità italiana nel 2008, si trova oggi vicina alla media europea. Il secondo caso è quello della Provincia di Bolzano, che, a differenza del dato nazionale, presenta oggi valori più elevati rispetto all’inizio della crisi economica.

Queste due realtà hanno soprattutto due elementi in comune. Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta di avere un figlio, rafforzando fiducia e clima sociale. Dove, invece, questo non è avvenuto, è cresciuto un diffuso senso di insicurezza verso il futuro, che anziché stemperarsi dopo la crisi, sembra sceso in profondità.
La seconda condizione favorevole che caratterizza sia la Germania, nel contesto europeo, e sia la Provincia di Bolzano, nel quadro nazionale, è il basso tasso di Neet (gli under 35 che non studiano e non lavorano). Nel resto d’Italia tale indicatore è tutt’ora sopra i livelli pre-crisi.

Non è un caso che la bassa fecondità italiana sia soprattutto da ricondurre, come mostrano i dati dettagliati dell’Istat, ad un crollo delle nascite realizzate prima dei 30 anni e ad una difficoltà a recuperare in età 30-34. La prima fascia d’età soffre, infatti, soprattutto delle difficoltà ad agganciare i propri progetti di vita a solidi percorsi formativi e di lavoro (da cui deriva un continuo rinvio oltre i trent’anni del primo figlio). La seconda fascia si scontra, invece, soprattutto con i limiti della conciliazione tra lavoro e famiglia (con aumento del rischio di rinuncia ad andar oltre il primo figlio). Un ulteriore riscontro è il peggioramento accentuato della fecondità nelle regioni meridionali.
Per superare difficoltà oggettive e insicurezze soggettive servono misure solide e strutturali, in grado di inserirsi coerentemente all’interno di una visione positiva del Paese, nella quale collocare la scelta di avere un figlio. Difficile però che questo avvenga in un Paese schiacciato in difesa – come rivela l’acceso confronto sulle pensioni – molto restio a portare le proprie priorità dalla difesa degli interessi e dei diritti delle generazioni più mature all’investimento in una nuova fase di crescita attraverso la promozione delle scelte e delle opportunità delle nuove generazioni.

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