I cambiamenti mondiali
Via via che attraversiamo il XXI secolo, la questione demografica si sposta dall’eccesso di crescita del numero di abitanti del pianeta all’impatto pervasivo dell’invecchiamento della popolazione.
Nella seconda metà del secolo scorso, la popolazione mondiale è passata da 2,5 a 6,1 miliardi. Se lungo tutta la storia umana la nostra specie è cresciuta fino ad arrivare a 2,5 miliardi nel 1950, in solo mezzo secolo si è aggiunta una popolazione 1,4 volte più grande. Mai si era vista una crescita demografica così intensa in passato, ma verosimilmente non la si vedrà più nemmeno in futuro. Le più recenti proiezioni delle Nazioni Unite (World Population Prospects 2019) indicano una popolazione mondiale di 9,7 miliardi nel 2050. Significa che per ogni persona presente nel 2000, se ne aggiungerà un’altra mezza abbondante (0,6 circa) nel corso della prima metà del XXI secolo.
Nel 2100 si prevede una popolazione leggermente sotto gli 11 miliardi. Il che equivale ad affiancare poco più di 0,1 persone a ciascuna presente nel 2050.
Se è vero che non siamo mai stati così tanti e che aumenteremo ancora per un po’ – con tutto ciò che questo significa in termini di impatto sulle risorse e la salute generale del pianeta -, il contributo alla crescita demografica portato dai vari paesi è però in continua riduzione. Si allarga, infatti, l’insieme dei paesi che vedono ridursi il proprio numero di abitanti, mentre si restringe il numero di quelli con alto tasso di incremento. Quasi la metà della crescita della popolazione mondiale da oggi al 2050 sarà concentrata in soli otto stati situati in Africa e in Asia. Nella seconda metà del secolo, l’aumento degli abitanti del pianeta sarà, di fatto, tutto attribuibile alle dinamiche dell’Africa sub-sahariana.
Nel frattempo, diventa sempre più largo un altro insieme, quello dei paesi con vertice della piramide demografica più ampio rispetto alla base: in particolare con persone di 65 anni e più (uscite dall’età tradizionalmente attiva) in numero più elevato rispetto agli under 15 (persone non ancora in età lavorativa). Nel 1950 la percentuale di persone di 65 anni e oltre era pari al 5,1 per cento sulla popolazione mondiale, mentre l’incidenza degli under 15 era del 34,3 per cento. Si prevede che alla fine di questo secolo i primi saliranno oltre il 22 per cento, mentre i secondi scenderanno sotto il 18 per cento.
Gli squilibri italiani
Se questa è la tendenza globale, l’Italia si è autocollocata tra i paesi che più l’hanno accelerata ed estremizzata. Nel nostro paese le persone di 65 anni e più hanno già raggiunto la percentuale che il mondo avrà a fine secolo. Ma soprattutto abbiamo ridotto la presenza delle più giovani generazioni su livelli che il complesso del pianeta vedrà forse solo in una fase avanzata del XXII secolo: gli attuali under 15 italiani sono il 13,2 per cento, secondo i dati Istat.
L’invecchiamento della popolazione è alimentato da un processo proprio – l’allungamento della durata media di vita dei singoli – e da un processo indiretto – la riduzione della natalità, la quale non aumenta il numero degli anziani, ma ne accresce il peso riducendo il numero di giovani (produce quindi un processo di “degiovanimento” più che di invecchiamento).
È soprattutto la persistente bassa fecondità italiana, nel 2018 pari a 1,32 figli, che ha prodotto gli squilibri demografici attuali e che continua ad alimentarli.
Quasi tutti i paesi avanzati si trovano sotto i due figli in media per donna (livello che corrisponde all’equilibrio generazionale). Però, nei paesi dove il tasso di fecondità non è precipitato troppo (come Francia, Svezia, Stati Uniti, Nuova Zelanda, tanto per citarne alcuni pur con sistemi di welfare molto diversi tra di loro), di fronte alla popolazione anziana che aumenta, quella in età lavorativa rimane solida.
A parità di allungamento della vita media, i costi dell’invecchiamento sono invece molto più rilevanti nel nostro paese, perché si riduce progressivamente la popolazione attiva (meno 6 milioni da qui al 2050, come indica l’ultimo Rapporto annuale Istat), ma anche perché la spesa sociale è già oggi tra le più sbilanciate verso pensioni e salute pubblica, perché stiamo investendo poco in politiche di apprendimento permanente e di supporto a una lunga vita attiva, perché perdiamo giovani dinamici e qualificati a vantaggio di paesi che meglio valorizzano il capitale umano, perché occupazione femminile e fecondità continuano a essere vincolate verso il basso dalla carenza di efficaci politiche di conciliazione. Magari anche perché, assieme a tutto questo, continuiamo a considerare l’immigrazione solo come un problema anziché un fenomeno complesso da governare e inserire strutturalmente nei nostri processi di crescita.